Giorno per giorno – 20 Gennaio 2011

Carissimi,

“Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui” (Mc 3, 7-8). Il brano segue immediatamente la notizia del complotto ordito da farisei ed erodiani contro Gesù e quando abbiamo cominciato a leggerlo, oggi pomeriggio, assieme agli amici della chácara di recupero, più d’uno ha pensato: starà fuggendo. Poi, però si vede questa folla incredibile che l’assedia, fino a rischiare di schiacciarlo (v. 9), perché Lui guariva e tutti coloro che avevano qualche male gli si buttavano addosso. E, allora, non è che Gesù scappa, anzi, forse sì, ma non per paura, semplicemente perché si rende conto che non ha più niente da dire al cuore indurito dei partigiani del potere, alle sue élite intellettuali, ai suoi alleati religiosi, interessati solo a difendere lo status quo e i privilegi che gliene derivano. Gesù trova quindi i suoi destinatari naturali in quel nuovo popolo di Dio, la moltitudine dei poveri di ogni dove, di ebrei e di pagani, di puri e impuri, fianco a fianco, senza più timore di contaminarsi, gente di ogni paese, fede, etnia, colore, cultura. E chiede una barca, da cui possa guardare tutti, tutti ascoltare e infine parlare per tutti la parola della liberazione da ogni male e da ogni oppressione. Quella barca era un po’ già simbolo della chiesa. Cioè, anche di noi, se lo vogliamo. Senza altra funzione che far risuonare quell’ascolto e quella Parola. Solo che può capitare che, ogni tanto ci se ne dimentichi e si preferisca al mar di Galilea, con le sue favelas e i suoi molteplici  profughi della vita, gli agi dei palazzi dei ricchi, le cene dei potenti, e gli intrallazzi che vi si celebrano. Sempre a fin di bene, naturalmente. Márcinho, alla fine dell’incontro, ha chiesto perché mai Gesù sgridasse severamente (v.12) quanti, posseduti da spiriti immondi, “gli si gettavano ai piedi gridando: Tu sei il Figlio di Dio” (v.11). Eppure era una dichiarazione di fede! Beh, la risposta che sorge spontanea è che Lui non abbia bisogno di agenti pubblicitari e che comunque la fede che ci chiede non è tanto un vuoto proclamare la divinitá della sua persona, quanto l’accogliere e far proprio l’agire che il suo nome significa (Gesù, cioè Jhvh-salva): in questo è la verità di Dio e la veritá dell’uomo. Il suo farsi. Il suo accadere.

 

Oggi la comunità fa memoria di Sebastiano, martire a Roma, di Octavio Ortiz e compagni, martiri in Salvador,  di  Khan Abdul Ghaffar Khan (Bacha Khan), profeta di pace e di nonviolenza. 

 

20 SEBASTIANO.JPGDel martire Sebastiano, nonostante le molte leggende fiorite sulla sua figura, sappiamo solo che fu giustiziato sotto l’imperatore Diocleziano (nell’anno 300) e fu sepolto nelle catacombe che avrebbero preso il suo nome. Ambrogio qualche decennio più tardi lo menziona in un suo commento al salmo 118, dicendo che era di Milano e che preferì lasciare la vita tranquilla per recarsi a Roma e testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Questo gli costò la vita.

 

20 JORGE GOMEZ.jpg20 ROBERTO ORELLANA.jpg20 Octavio Ortiz.jpgOctavio Ortiz era nato il 22 marzo 1944, ad Agua Blanca nel municipio di Cacaopera, nel Dipartimento di Morazarán (El Salvador), nella famiglia contadina di Alejandro Ortíz e Exaltación de la Cruz Luna (che persero altri quattro figli durante gli anni sanguinosi della dittatura).  Entrato nel seminario di San José de la Montaña, fu il primo a ricevere l’ordinaziaone sacerdotale da mons. Romero che gli affidò in un primo momento la cura pastorale della Comunità di Zacamil e poi quella della parrocchia di El Despertar, alla periferia di Mejicanos. 20 ANGEL MORALES.jpg20 DAVID CABALLERO.jpgAll’alba del 20 gennaio 1979, durante un ritiro, guidato da P. Octavio in un Centro di spiritualità della parrocchia, che vedeva riuniti una trentina di giovani, sopraggiunse una pattuglia dell’esercito che sparò al sacerdote e a quattro studenti e catechisti Ángel Morales, David Caballero, Jorge A. Gómez e  Roberto A. Orellana, arrestando gli altri. Dopo il massacro, i soldati fotografarono i cadaveri con accanto le loro stesse armi, per far credere all’opinione pubblica che si trattasse di un gruppo di guerriglieri. Mons. Romero che celebrò i funerali, denunciò l’assassinio e additò nel regime il responsabile della strage.

 

20 ABDUL GHAFFAR KHAN.jpgKhan Abdul Ghaffar Khan era nato nel 1890 nella famiglia di un proprietario terriero, Khan Sahib Baharam Khan, a Utmanzai, un villaggio nei pressi di  Peshawar, che oggi è in Pakistan, ma allora era in India, colonia britannica.  Benché illetterati, i genitori educarono il giovane Abdul ad una profonda religiosità e al gusto per una vita semplice ed essenziale. Nel 1929, partecipando ad una riunione del Partito del Congresso, Khan fece sua la causa della lotta indipendentista e decise di coinvolgervi la sua gente, i focosi pathan. Con una pretesa, tuttavia, a prima vista assurda: sarebbero stati soldati disarmati, addestrati ad affrontare con coraggio il nemico, senza arretrare né rispondere. I pathan arruolati, che scelsero di chiamarsi Khudai khidmatgar, i servi di Dio, costituirono il primo esercito nonviolento professionale della storia. Promettendo di astenersi da ogni violenza e vendetta,  di perdonare chiunque li opprimesse o facesse loro del male, di evitare ogni pigrizia, e di dedicare almeno due ore al giorno ad un qualche servizio sociale, i pathan passavano di villaggio in villaggio, organizzando la popolazione, aprendo scuole, convocando assemblee, insegnando tecniche di nonviolenza,  conducendo in tal modo la loro personalissima jihad, la guerra santa tra il bene e il male, che ogni persona è chiamata a combattere nella sua propria coscienza. Il 31 dicembre 1929 i delegati del Congresso indiano dichiararono l’indipendenza, lanciando la parola d’ordine della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Seguì una repressione spietata da parte dei britannici. Khan trascorse lunghi periodi in prigionia, ma l’esercito nonviolento dei servi di Dio, che era giunse a contare trecentomila membri, non desistette. Quando, alla vigilia dell’indipendenza,  la Lega musulmana chiese uno stato confessionale autonomo, Khan e i suoi combatterono la proposta, convinti, come Gandhi,  che musulmani e indú avrebbero potuto continuare a convivere. Fu tutto inutile e gli opposti estremismi ebbero la meglio: Gandhi fu ucciso da un indú che l’accusava di essere filomusulmano, e Khan fu imprigionato dal governo musulmano del Pakistan sotto l’accusa di essere filoindú. Avrebbe trascorso quindici anni in prigione e sette in esilio in Afghanistan. Ghaffar Khan morì novantottenne a Peshawar il 20 gennaio 1988 e fu sepolto a Jalalabad, in Afghanistan. Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali e un cessate-il-fuoco fu annunciato in quel Paese dilaniato dalla guerra per permettere lo svolgimento delle solenni esequie. Era stato decorato solo un anno prima con il Bharat Ratna – il più alto riconoscimento civile dello stato indiano.

 

Tu bishvat.jpgOggi, i nostri fratelli ebrei festeggiano Tu Bishvàt che letteralmente significa il “15 di Shevàt”. È la festa che ricorda Rosh Hashanà lailanòt o Capodanno degli alberi. Anticamente, in Terra d’Israele, la data segnava l’inizio di un nuovo anno agricolo, perché, giorno più giorno meno, era come oggi che gli alberi cominciavano a gemmare, lasciando presagire la primavera imminente. La festa, che in realtà è una mezza festa (non è infatti proibito lavorare), è celebrata con un séder a base di frutta: grano, orzo, olive, datteri, uva, fichi, melagrana, agrumi ecc. Durante il pasto (che si è consumato all’entrata della festa, ieri sera) si leggono brani della Torà, di Ezechiele e dei Salmi e si bevono quattro bicchieri di vino: il primo bianco (che simboleggia l’inverno, ma anche il male che è in noi), il secondo ancora bianco, ma con qualche goccia di rosso (a significare l’avvicinarsi della primavera, e i primi passi sulla via della conversione), il terzo metà rosso e metà bianco (quando la primavera avanza e la nostra teshuvà si consolida) e l’ultimo solo rosso (segno che la primavera è in pieno rigoglio e la tendenza verso il bene e la vita è ormai prevalsa in noi).  Che questo possa essere vero anche per noi e, più che mai, per le terre di Israele e Palestina. Perché il deserto rifiorisca, giustizia e pace si abbraccino, e i loro popoli, finalmente, vivano.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Lettera agli Ebrei, cap. 7, 25 – 8,6;  Salmo 40; Vangelo di Marco, cap. 3, 7-12.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

È tutto. Il martirio è stato per lunghi, interminabili, anni, in molti paesi dell’America Latina, ma se possibile, più ancora, in Salvador, come ci testimonia anche la memoria odierna di Octavio Ortiz e dei suoi compagni, una realtà quotidiana, disumanizzante, imposta a vasti strati della popolazione dai poteri del mondo, ma, per molti, una scelta di vita e di lotta fianco a fianco delle vittime dell’impero, per insieme sognare e forzare i tempi dell’alba di un mondo nuovo. Sul significato del martirio nel contesto latinoamericano Jon Sobrino, il gesuita scampato al massacro dell’Università Centroamericana del novembre 1989, torna con frequenza nei suoi saggi e nelle sue riflessioni. Noi, nel congedarci, ve ne offriamo una citazione tratta dal suo “Los mártires y la teología de la liberación” (Sal Terrae – octubre 1995). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

I martiri non sono stati masochisti né religiosi fanatici  ansiosi di versare il sangue proprio e l’altrui. Sono stati, invece, persone di compassione e di misericordia. Tra noi, il martirio è stato, anzitutto, conseguenza di un grande amore per i poveri, per coloro che subiscono ingiustizia, oppressione, repressione e morte. I martiri – e questo bisogna sottolinearlo – non  hanno dato la vita per ottenere qualcosa per loro stessi,  potere, ricchezza … -, ma perché le maggioranze abbiano vita. Per questo sono in se stessi profezia contro l’ingiustizia e  utopia di vita. Ma, perché  chi difende il debole per amore viene ucciso? Ecco qui il grande enigma della storia, il misterium iniquitatis. Che è anche il grande dilemma esistenziale: continuare a difendere il povero in questa storia di morte o  lottare contro il male solo da fuori o anche da dentro, facendosi carico del peccato di questo mondo. […] Per chiarire la specificità e l’importanza del “farsi carico del peccato”, può forse aiutare la seguente distinzione: bisogna eliminare il male e perciò bisogna combatterlo, eticamente e umanamente, in tutte le forme possibili. E quando questa lotta ha successo, possiamo parlare di liberazione. Ma bisogna anche sradicare le radici del male, per ribaltare così il suo dinamismo mortale e, per questo bisogna essere disposti a farsi carico  di questo male fino all’estremo dell’annientamento. Questo noi lo chiamiamo redenzione. Martire è, quindi, colui che cerca di liberare del male della realtà, ma, anche colui che cerca di redimerla facendosene carico. (Jon Sobrino, Los mártires y la teología de la liberación).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Gennaio 2011ultima modifica: 2011-01-20T23:33:00+01:00da fraternidade
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