Giorno per giorno – 29 Dicembre 2010

Carissimi,

“Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza” (Lc 2, 29-30). Isaia, nel secondo canto del servo del Signore, aveva detto: “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49, 6). Ora l’anziano Simeone – il cui nome significa “Dio ascolta” (anche se a volte si è portati a pensare che sia sordo, ma sordi, in realtà, siamo noi) – uomo giusto e timorato di Dio, che attendeva la consolazione d’Israele (o, è, piuttosto, immagine dell’Israele e dell’umanità, che spera di ricevere il suo conforto), riconosce in “quel” bambino, che viene presentato, come ogni altro, al Tempio, il compimento delle sue speranze. Prima ancora di vederne un qualsiasi frutto, segnale o realizzazione. Come anche noi, oggi, stentiamo a scorgerne. Da allora, comunque, sappiamo (se si è disposti a crederlo) che la salvezza è “quel” bambino e il suo significato. Che crescerà e manifesterà i suoi gesti salvifici, ma che, con ogni probabilità, incontrerà opposizione, sarà perseguitato, “dovrà” molto soffrire, sarà ucciso. Come succede con la veritá. E questo vale in ogni generazione. Egli stesso, poi, sarà occasione per la caduta e la risurrezione di molti (v.34). Non è detto “per la rovina di alcuni e la risurrezione di altri”, come frettolosamente alcuni tendono ad interpretare. Risorgono, infatti, coloro che cadono. E chi non farà cadere lo scandaloso evento della Croce? La fede di quanti (tra gli stessi discepoli) non metterà alla prova l’inaudita e sconvolgente novità di Dio che vi sta adombrata?   Il destino, poi, della Madre, di chi, cioè, è chiamato a generare nuovamente nel tempo la Parola di Dio manifestatasi in Gesù, non può essere diverso da quello della verità che annuncia. Di più, in esso saranno svelati i pensieri di molti cuori (v. 35): dietro professioni di fede solo di facciata, quali e quante ambizioni segrete, macchinazioni, ricerca di gratificazioni e di privilegi, ansia di imporsi e di dominare, invece che nascondimento, umiltà, spirito di servizio, solidarietà vera con i poveri, dono generoso di sé agli altri? Svelamento, comunque, che sarà, non in vista del pubblico ludibrio, ma come occasione di pentimento, riscatto, risurrezione. Salvezza, quindi. Perché il suo nome è Gesù: Dio-salva. San Paolo, parlando di Abramo, scrisse: “Egli credette sperando contro ogni speranza” (Rm 4, 18). A noi pare che lo si possa dire anche del vecchio Simeone che, contro ogni evidenza, seppe vedere il compimento delle sue, di speranze. Forse noi pure abbiamo bisogno di ricordarci che c’è – e chi è – Colui che compie le nostre attese. Oltre ogni pessimismo per come vanno le cose del mondo.   

 

Oggi è il Quinto giorno dell’Ottava di Natale e si fa memoria di Thomas Becket, pastore e martire, e di  Sébastien Castellion, testimone di pace e e di nonviolenza.

 

29_THOMAS_BECKET.JPGPrima di fare il vescovo, Thomas (nato a Londra nel 1117 da una famiglia normanna) aveva le sue idee, era ambizioso, ricco, colto e godereccio, politicamente in linea, tanto che il re l’aveva nominato cancelliere. E lui, naturalmente, il re, che avesse torto o ragione, lo difendeva a spada tratta.  Quando, nel 1161, morì l’arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, re Enrico pensò che gli sarebbe piaciuto avere anche il primate della Chiesa d’Inghilterra ugualmente compiacente e scelse per quella carica – allora i re se lo potevano permettere – l’amico fidato.  Non avrebbe potuto prendere un granchio maggiore! Thomas lo mise in guardia, a dire il vero, dicendogli: “Sire, se diverrò arcivescovo di Canterbury, perderò l’amicizia di Vostra Maestà”. Niente da fare: ordinato sacerdote il 3 giugno 1162, fu consacrato vescovo il giorno dopo. E furono subito guai. Il re pensò di approvare certe leggi (le “Costituzioni di Clarendon”), che ripristinavano diritti abusivi della casa reale. E lui, Thomas, a dire pane al pane e vino al vino. Che poi era come dare del “villanzone” al re.  Il minimo che ci si potesse aspettare era che il buon Thomas finisse in esilio, in un monastero cistercense, in Francia. E difatti. Ma questo lo aiutò a farsi le ossa. Pare infatti che nei monasteri la vita fosse dura. E lui non ci era ancora abituato.  Dopo sei anni, grazie anche ai buoni uffici della curia romana, Thomas tornò a Canterbury, siglando un accordo di pace con il re, ma anche con le idee molto chiare  sulla giustizia e sul primato della coscienza. Come prima cosa, disse ai vescovi che erano scesi a patti col re: Cari miei, così non va: siete solo opportunisti e dovreste vergognarvi.  Il re naturalmente perse le staffe e disse: fatemelo fuori, per favore, questo prete infido. (Dovremmo imparare ad esserlo tutti, infidi, con i potenti, per essere fedeli solo al Vangelo). Quattro cavalieri armati partirono alla volta di Canterbury. L’arcivescovo lo venne a sapere e li aspettò, dicendo ai suoi: “La paura della morte non deve farci perdere di vista la giustizia”. Rivestito dei sacri paramenti, nella cattedrale, si lasciò pugnalare senza opporre  resistenza. Disse soltanto: “Accetto la morte per il nome di Gesù e per la Chiesa”. Era il 29 dicembre del 1170.

 

29 Castellion.jpgSébastien Castellion era nato nel 1515 a Saint-Martin-du-Fresne, in Savoia (Francia) e aveva poi studiato all’università di Lione. Poco più che ventenne, lesse la Institution chrétienne di Giovanni Calvino, che lo entusiasmò a tal punto da indurlo nel 1540 a recarsi a Strasburgo per incontrarvi il riformatore, e a trasferirsi, due anni più tardi, a Ginevra, dove Calvino lo chiamò a dirigere il ginnasio locale. L’amicizia e la fiducia reciproca tra i due, tuttavia, s’incrinò presto. Nel 1543 Castellion scrisse Les Dialogues sacrés, in cui esprimeva con grande chiarezza e determinazione la sua ostilitá per ogni genere tirannia e assolutismo. Scriverà: “Non c’è nulla che resista più tenacemente alla Veritá che i grandi di questo mondo”. E la cosa non piacque molto (chissá perché?) al riformatore ginevrino. Tanto che ci fu chi consigliò a Castellion di lasciare in fretta la cittá. Quando il 27 ottobre 1533 Calvino ordinò di mandare al rogo Michele Serveto, accusato di eresia, Castellion, sotto lo pesudonimo di Martin Bellie, reagì pubblicando l’opuscolo De haereticis an sint persequendi (più o meno: Ma sono proprio da perseguitare questi poveri eretici?), che, fitto di citazioni di Lutero, di Sébastien Franck, di Erasmo da Rotterdam e dello stesso Castellion, difendeva a spada tratta la libertà di coscienza e il principio di tolleranza. L’autore invitava tutti a “rientrare in sé, preoccupandosi di correggere la propria vita più che di condannare gli altri”. Si sollevò, allora, contro di lui il teologo calvinista Theodore de Bezé, denunciando la “carità diabolica e non cristiana” dell’avversario, mentre Calvino in persona lo definì “un mostro pieno di veleno e di sfrontatezza”. Castellion gli rispose serafico: “Le vostre parole e le vostre armi sono quelle usate solo dai despoti; e possono darvi solo un potere temporale, non una supremazia spirituale, una supremazia basata sulla coercizione, e non sull’amore di Dio”. Sempre più solo e isolato, nel 1562,  pubblicò Conseil à la France désolée, in cui esortava a porre fine a tutte le guerre di religione e alle persecuzioni. Nell’opuscolo “Contro il libello di Calvino”, a proposito dell’esecuzione di Serveto, scrisse: “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa”. Restò profeta inascoltato. Morì il 29 dicembre 1563 a Basilea.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra attenzione sono tratti da:

1ª Lettera di Giovanni, cap. 2, 3-11; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap.2, 22-35.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti perseguono un mondo di giustizia, fraternità e pace, lungo i cammini più diversi.

 

Si è parlato di compimento. E c’è un compimento di cui a volte si preferirebbe non parlare. Quello del congedo ultimo, del “tutto è compiuto”. Di cui il cantico di Simeone è un bell’esempio che si potrebbe imparare ad imitare. Sapendo leggere il bello che avanza, dire pacificati: adesso posso pure andare. “Il dono del compimento” (Queriniana) è il titolo di un bel libro di Henri J.M. Nouwen, che ha come sottotitolo “Meditazione su come morire e imparare a morire”. In questo scorcio finale di anno, che rimanda giocoforza alle immagini del tramonto e dell’alba che ci attende, ve ne proponiamo un brano come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Di recente un amico mi ha raccontato la storia di due gemelli che si parlavano nell’utero materno. La sorella diceva al fratello: “lo credo che vi sia una vita dopo la nascita”. Il fratello protestava violentemente: “No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre”. La sorellina insisteva: “Dev’esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Dev’esserci qualcos’altro, un luogo di luce, dove c’è la libertà di muoversi”. Ma non riusciva a convincere il fratello. Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: “Ho qualcos’altro da dire, e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che vi sia una madre”. Il fratello s’infuriò: “Una madre?”, gridò. “Ma di che cosa parli? Non ho mai visto una madre, e nemmeno tu. Chi ti ha messo in testa questa idea? Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sempre qualcosa di più? non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, accontentiamoci, dunque”. La sorella fu ridotta al silenzio dalla risposta del fratello e per un po’ di tempo non osò dire più nulla. Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri, e dato che aveva soltanto il fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: “Non senti ogni tanto degli spasimi? Non sono piacevoli e qualche volta fanno male”. “Sì”, rispose lui. “Che cosa c’è di particolare in questo?”. “Bene”, disse la sorella, “io penso che questi movimenti ci siano per prepararci a un altro luogo, molto più bello di questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra meraviglioso?”. Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente ignorarla e sperare che l’avrebbe lasciato in pace. Questa storia può insegnarci a pensare alla morte in modo nuovo. Possiamo vivere come se la vita fosse tutto ciò che abbiamo, come se la morte fosse assurda e noi faremmo meglio a non parlarne; oppure possiamo scegliere di reclamare la nostra divina infanzia e figliolanza e confidare che la morte è il passaggio doloroso ma benedetto che ci porterà faccia a faccia col nostro Dio. (Henri J.M. Nouwen, Il dono del compimento).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Dicembre 2010ultima modifica: 2010-12-29T23:49:00+01:00da fraternidade
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