Giorno per giorno – 15 Dicembre 2010

Carissimi,

“Giovanni chiamati due dei suoi discepoli li mandò a dire al Signore: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7, 18-19). È lo stesso racconto che abbiamo ascoltato domenica scorsa, là nella versione di Matteo, qui in quella di Luca. E questo insistere della liturgia, così come, la cura che, nel testo di oggi, l’evangelista pone nel ripetere due volte la domanda  (v19-20), e con ciò anche il dubbio di Giovanni, significherà pure qualcosa. Sì, Luca sa che quel dubbio attraversa anche la sua comunità, come la chiesa lo sa di sé e dei suoi, anche oggi, a distanza di duemila anni. Perché, dentro, più o meno nascosta, ci portiamo tutti o in tanti la delusione di come sia finita (o non finisca) la storia. Con la vittoria del bene sul male sempre rinviata, e i cattivi che hanno ancora ogni volta la meglio. Non succedeva così nei film western della nostra infanzia, che eccitavano la nostra fantasia (sia pure, spesso, in una prospettiva sbagliata), così come non accadeva nei sogni dei profeti. E Gesù lo sapeva. Sapeva che l’uomo può amare (i buoni, naturalmente, e gli amici) e uccidere (i cattivi e i nemici) e che è convinto che anche Dio sia così. Basta leggersi l’inizio del brano d’oggi della profezia di Isaia: “Io sono il Signore, non ce n’è altri. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura” (Is 45, 6-7). Anche Giovanni lo credeva e il Cristo di Dio doveva essere uguale. E per Gesù smentire la parola di suo Padre non doveva essere uno scherzo. Ne andava della sua credibilità. Da qui l’insostenibilità della sua pretesa nei confronti della sua generazione. Ma anche di ogni altra. Chi di noi crede davvero che Gesù sia colui che deve venire, che, cioè, sia rivelazione della Verità vera di Dio? No, diciamocelo, non lo crediamo, perché credere è assumere come significato della nostra vita. E la nostra vita è in genere assolutamente uguale a quella di chi non crede, salvo qualche giro in chiesa, che non muta assolutamente la sostanza delle cose. Il Dio di Gesù è come noi non siamo, così uguale a noi, nella sua umanità, e così radicalmente diverso. Per questo l’unica preghiera che la chiesa (noi, cioè) dovrebbe ripetere, può essere soltanto: abbi compassione di noi. Guariscici tu, come allora, hai “guarito molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi” e hai dato “la vista a molti ciechi” (Lc 7, 21). Noi continuiamo ad essere ciechi, Signore, tu ci senti? Facci, dunque, vedere.   

 

Oggi noi si fa memoria di Giuseppe Dossetti, monaco e sentinella del buon Dio; e di Ronaldo Muñoz Gibbs, prete povero tra i poveri.

 

15 GIUSEPPE DOSSETTI.jpgGiuseppe Dossetti era nato a Genova il 13 febbraio 1913. Dopo la laurea in giurisprudenza, insegnò alla Cattolica di Milano. Antifascista e presidente del CLN di Reggio Emilia, nel 1945 divenne vice segretario nazionale della Democrazia Cristiana e l’anno seguente fu eletto all’Assemblea Costituente. Lasciata nel 1952 la politica attiva a causa dei dissensi insorti con la leadership del partito, accettò tuttavia la candidatura a sindaco di Bologna nel 1954, rimanendo in consiglio comunale fino al 1958. Il 6 gennaio 1956, emise la sua professione monastica e tre anni più tardi ricevette l’ordinazione sacerdotale dal card. Lercaro, scegliendo di vivere in silenzio, preghiera, lavoro e povertà, nella Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità monastica che aveva fondato a Monteveglio, un paesino sulle colline del bolognese. Lercaro lo volle con lui al Concilio come suo perito personale. Insieme daranno voce al desiderio di quanti nella Chiesa vogliono una Chiesa povera e dei poveri.  A partire dal 1968 tornò a dedicarsi a tempo pieno alla cura della sua comunità, che intanto si era diffusa in altre regioni italiane e, all’estero, in Palestina e Giordania. Nel 1994, dopo la vittoria elettorale del centro-destra, uscì dal suo ritiro monastico per denunciare i pericoli di un’evoluzione a destra nella vita politica nazionale, facendo udire ripetutamente, negli ultimi anni di vita, la  sua voce  in difesa della Costituzione. Morì in seguito ad una malattia, la mattina di domenica 15 dicembre 1996  e fu sepolto, per sua espressa volontà, nel cimitero di Monte Sole, nei pressi di Marzabotto, che era stato teatro durante la guerra di un efferato massacro di civili ad opera dei nazifascisti.

 

15 RONALDO MUÑOZ.jpgRonaldo Muñoz Gibbs  era nato a Santiago del Cile il 7 marzo 1933. Dopo gli studi di architettura, sentendosi chiamato alla vita religiosa, entrò nella Congregazione dei Sacri Cuori, dove emise i suoi primi voti il 27 marzo 1955 e, dove, al termine degli studi di teologia, fu ordinato presbitero, il 23 luglio 1961. Studiò in seguito nell’Università Gregoriana di Roma, nell’Istituto Cattolico di Parigi, e , nel 1972, conseguì il dottorato in Teologia, in Germania, all’Università di Ratisbona. Sin dall’inizio del suo ministero divise il suo tempo tra l’accompagnamento pastorale dei quartieri popolari di Santiago Sud, dove abitò per gran parte della sua vita,  e il servizio teologico prestato alla Chiesa cilena e latinoamericana, nella linea della teologia della liberazione. Pubblicò numerosi libri in Cile e all’estero. Il suo lavoro più conosciuto è “Dios de los cristianos”, che fu tradotto in portoghese, inglese, francese, italiano e tedesco. A partire dal 2005  si  trasferì a vivere con i suoi confratelli nel quartiere popolare Nueva Lo Espejo, sempre a Santiago, profondendo il suo impegno nelle comunità di base e dedicandosi soprattutto alla formazione dei laici. Nel maggio 2008 gli fu diagnosticato un tumore, che non fu possibile curare. Morì il 15 dicembre 2009. Poco prima di morire disse: “Credere nella vita e nella pienezza della vita oltre la morte non è qualcosa di scontato, di evidente, di logico. Molti cristiani si lasciano sedurre dal progetto di Gesù di umanizzare la terra, ma sospendono  il giudizio sul senso ultimo della vita”. “Ronaldo Muñoz fu un prete che sempre volle vivere povero tra i poveri e lo fece. In loro potè incontrare con maggior trasparenza il volto di Gesù; da loro apprese la semplicità, la solidarietà, l’impegno. A loro volta, i poveri lo accompagnarono con il loro affetto fraterno, soprattutto nell’approssimarsi del traguardo definitivo”: così lo ricordano i suoi confratelli ed amici.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Isaia, cap. 45,6-8.18.21-25; Salmo 85; Vangelo di Luca, cap. 7,18b-23.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con i cercatori dell´assoluto, lungo i sentieri non istituzionali della lotta per la giustizia, la pace, la comprensione tra popoli e individui.

 

Nelle comunità è cominciata stasera la novena di Natale. Quella dell’Aeroporto si è riunita a casa di Milza (pron. Miusa), che tutti però chiamano Fia (vezzeggiativo di Filha, cioè Figlia) o anche Fiinha (Filhinha, ovvero Figlina). Lei si muove raramente di casa, perché si prende cura della madre, che sabato farà 96 anni. Ogni giorno della Novena ha la sua antifona detta della “O”, per via dell’interiezione che apre l’invocazione, sempre diversa, di uno dei titoli messianici. Oggi era questa: “O Mistero, nascosto da secoli nei cieli, ai fedeli sei stato un giorno rivelato, i ciechi gli occhi hanno recuperato, i passi dello zoppo sono già saldi, fai ascoltare al povero la voce di Dio, vieni, solleva tu da terra gli umiliati. Vieni, figlio di Maria, il domani già si annuncia. Quanta sete, quanta attesa, quando viene, quando viene quel giorno?”. Fia racconta che trent’anni fa era rimasta paralizzata a letto  e aveva sei figli a cui badare, uno che ancora non camminava e sua madre era venuta a stare da lei per aiutarla. Lei era cresciuta in campagna e non sapeva mica molto di religione. Però, a quel tempo, le capitava di piangere di nascosto e di pregare Gesù e la Madonna Aparecida: voi non mi lascerete troppo tempo così, vero? E, dopo due anni, anche se zoppicando un po,’ ha ripreso ad andare e a fare il suo dovere. Così, da allora, anche se non va molto in chiesa, lei ha un rapporto speciale con loro due e, ogni giorno, gli dice tutto quello che ha da fare e gli chiede come farlo. E loro le danno una mano.

 

Sentinella, quanto resta della notte? (Is 21,11)” è il titolo dell’intervento di don Giuseppe Dossetti alla commemorazione di Giuseppe Lazzati, tenuta a Milano, nell’anniversario della morte, il 18 maggio 1994. Ve ne proponiamo qui un brano, come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

S. Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato. E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna. L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2 Cor 5, 17 e Gal 6, 15); rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato (Gal 3, 27). Può così essere fortificato per ogni combattimento dall’armatura di Dio (Ef 6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (I Tes 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col 3, 12). […] In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio – nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione – dal fulgore dell’enorme, letteralmente “eterno peso di gloria“. Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale. […] Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io. (Giuseppe Dossetti, Sentinella, quanto resta della notte?).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Dicembre 2010ultima modifica: 2010-12-15T23:33:00+01:00da fraternidade
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