Giorno per giorno – 13 Dicembre 2010

Carissimi,

“Gesù entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo e dissero: Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?” (Mt 21, 23). Trattandosi di Parola di Dio, è chiaro che anche qui, come sempre, non c’è in ballo solo l’atteggiamento delle gerarchie religiose del tempo (e di ogni tempo) e la loro comunella (del tutto scontata, abbiate pazienza!) con i potenti della politica. Ci siamo noi. Il desiderio, anzi, la smania del potere, che attecchisce in quella e in questi, è presente in forme meno plateali, ma altrettanto evidenti, anche in noi, nelle nostre relazioni famigliari, comunitarie (anche di chiesa, perciò), di studio e di lavoro. E la domanda più vera che noi rivolgiamo a Gesù non è tanto la fonte della sua autorità, l’origine della sua forza (dopo duemila anni, catechismo alla mano, lo sappiamo ripetere anche noi che viene da Dio), ma quale autorità gli riconosciamo nella nostra vita. E la risposta (anche quella mancata) è messa a nudo dalla sua controdomanda. Oggi non si tratta più della nostra opinione sul battesimo di Giovanni, ma sugli appelli alla conversione che ci arrivano da ogni parte del mondo? Cosa vogliamo fare della nostra vita? A cosa, a chi, vogliamo convertirla? Alla logica dell’arricchimento, della rapina ai danni dei più, della corruzione, del privilegio, dell’egoismo, dell’indifferenza, del disprezzo, dell’odio, dell’intolleranza, degli intrallazzi, dei ricevimenti d’onore e delle colazioni d’affari tra signori e monsignori, delle strizzate d’occhio e delle battute così tristemente amene tra governanti e segretari di stato, o a quella delle beatitudini dei poveri, della solidarietà, della condivisione? Rispondiamo a questo, sapremo quale autorità ha Gesù nella nostra vita e se per noi viene davvero da Dio. O, se invece, è tutto solo uno scherzo.

 

Due sono le memorie che il calendario ci porta oggi: quella di Lucia, martire a Siracusa, e quella di Mosè Maimonide (Rambam), sapiente d’Israele.

 

13 LUCIA.jpgSi sa poco di certo sulla vita della giovane cristiana, Lucia, morta martire a Siracusa, per ordine del governatore Pascasio, in questo giorno nell’anno 304. Ma sappiamo quanto basta. Ed è il fatto che una semplice donna come lei abbia saputo dire il suo “no” all’impero, alla sua idolatria del potere, alla sua religione alienante, ed abbia scelto, come norma di vita, la buona notizia di Gesù e la verità che essa ci trasmette: la fede in un Dio che è padre universale, l’amore solidale per il prossimo, che da questa fede deriva, il rifiuto di ogni sistema oppressivo.

 

13 Maimonides.jpgMosè ben Maimon era nato a Cordova, all’epoca sotto dominazione islamica,  il 30 marzo 1135. Giovanissimo, studiò la Bibbia e il Talmud, ma anche matematica,  logica,  metafisica, filologia, scienze naturali e medicina. Quando, nel 1148, Cordova cadde nelle mani degli Almohadi, cristiani e ebrei furono costretti a scegliere tra convertirsi all’Islam o emigrare. Dopo alcuni anni di spostamenti nella penisola iberica, la famiglia di Mosè, nel 1160, si trasferì a Fez, in Marocco. Da lì, nel 1165, nuove insorgenti difficoltà sul piano religioso, portarono alla decisione di partire per la Terra Santa e a spostarsi,  qualche mese dopo, in Egitto. Qui, dopo la morte del padre e del fratello minore, David, Mosè si diede alla professione medica ed ebbe tanto successo che fu nominato medico alla corte del Sultano Saladino. Nello stesso tempo crebbe la fama della sua sapienza, competenza e capacità di discernimento sia all’interno della locale comunità ebraica che tra le altre della diaspora. In Egitto Maimonide portò a compimento le sue tre opere maggiori: il Commento alla Mishnà, iniziato in gioventù; il Mishneh Torah, il primo vero codice di leggi dall’epoca della Mishnà; e infine l’opera filosofica Moreh nevukhim (Guida dei perplessi). Presto ricopiate da centinaia di amanuensi, le tre opere conobbero una rapida diffusione in tutto il mondo ebraico. Sovraccaricato di lavoro, minato nella salute, Maimonide morì il 13 dicembre 1204 (13 Tevet 4965), a 69 anni. A Fostat (il Cairo), la sua morte fu pianta per tre giorni da ebrei e musulmani e gli ebrei di ogni altro paese decretarono il lutto. Fu seppellito a Tiberiade, in Eretz Israel, dove la sua tomba attira ancor oggi un continuo flusso di pellegrini.

 

I testi che la liturgia odierna propne alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro dei Numeri, cap.24, 2-7. 15-17a; Salmo 25; Vangelo di Matteo, cap.21, 23-27.

 

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi tradizioni religiose dell’India: Shivaismo, Vishnuismo, Shaktismo.

 

Non avendo sottomano testi di Mosè Maimonide, scegliamo di offrirvi in lettura un commento alla parashà che le comunità ebraiche leggono questa settimana. Essa ha come titolo “Vaichi”,  cioè “E visse” (Gen 47, 28 – 50,26). È con essa che si chiude il libro di Genesi e con cui noi ci congediamo. Il brano, che dedichiamo soprattutto ai nonni e alle nonne, ma anche a figli(e) e nipoti, è tratto dal libro di Pinchas H. Peli, “La Torah oggi” (Marietti) e, per oggi, è il nostro   

 

PENSIERO DEL GIORNO

Per essere sicuro che il sogno di Israele non venga sepolto in Egitto, Giacobbe si rivolge alla nuova generazione. “L’angelo, che mi ha liberato da ogni male, benedica questi ragazzi! Il mio nome e quello dei miei padri Abramo ed Isacco continui a vivere in loro” (Gen 48, 16a). Prima di questo messaggio vengono le parole: “E questa fu la benedizione che diede a Giuseppe” (v.15). La benedizione è diretta ai figli di Giuseppe, non a Giuseppe. Sembra che la migliore benedizione che un padre possa gradire sia talvolta quella diretta ai propri figli. Ma Giacobbe non si preoccupa dei propri figli. Essi sono la prima generazione di immigrati e ancora ricordano il “vecchio paese” e la casa di Giacobbe in cui crebbero. Per essere certo che la catena della tradizione continui, cerca di comunicare con la terza generazione, con i nipoti. Ci sono degli animali e degli uccelli che comunicano con i loro nati, ma credo che solo gli esseri umani comunichino con i nipoti. Affinché il rapporto con essi sia ricco di significato bisogna essere in grado di tramettere ai nipoti la tradizione che si è ricevuta dai nonni. Giacobbe sapeva di essere responsabile del destino dei nipoti. Se non avesse trasmesso loro le benedizioni della sua tradizione, qualcun altro, molto tempo dopo, avrebbe potuto ricordargliele e nei modi più terribili. Il filosofo Emil Fackenheim nel suo lavoro fondamentale sullo Sterminio così scrive: “Il milione di bambini ebrei assassinati nello Sterminio nazista non sono morti a causa della loro fede e nemmeno nonostante la loro fede. Furono uccisi per la fede dei loro bisnonni. Se questi bisnonni avessero abbandonato la loro fede ebraica e non fossero stati in grado di educare i figli ebrei, la quarta generazione dopo di loro avrebbe potuto essere fra gli esecutori nazisti e non fra le vittime ebree”. Giacobbe si rendeva conto che i nonni, non meno dei genitori  (che sono dei nonni potenziali), hanno la responsabilità del destino e della fede dei propri nipoti. Chi è un ebreo? Non è colui che può vantare avi illustri (e chi fra noi non ha almeno un grande rabbino nella famiglia?), ma colui che può parlare con fiducia dei suoi nipoti ebrei. Questo si può fare se si segue l’esempio di Giacobbe, il quale disse a Giuseppe: “Portali, ti prego, a me” (Gen 48,9). (Pinchas H. Peli, la Torah oggi).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.     

Giorno per giorno – 13 Dicembre 2010ultima modifica: 2010-12-13T23:02:00+01:00da fraternidade
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