Giorno per giorno – 25 Settembre 2010

Carissimi,

“Mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9, 43-44). A dire il vero, il testo originale dice: mettetevi nelle orecchie. Ma, al traduttore dev’essere sembrato poco fine. Eppure è proprio lì che ci dovrebbe continuamente risuonare quella parola: sta per essere consegnato. Nelle nostre mani. E noi ne faremo ciò che meglio crederemo. Lui, consegnato dal Padre a noi, come segno dell’amore infinito che ci porta, e anche come gesto di fiducia. Ci è venuto in mente la parabola dei vignaioli omicidi, con il padrone della vigna che dice: Manderò loro il mio unico figlio; forse di lui avranno rispetto (cf Lc 20,13). E invece. Il brano  che abbiamo letto stamattina è preceduto nel Vangelo dal racconto della trasfigurazione. Quando i discepoli odono la voce che dice: “Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo” (Lc 9, 35). Ed ora Lui ci dice questo fatto della consegna. Che noi preferiamo non capire (Lc 9, 45). Dopo la trafigurazione, sceso dal monte, Gesù aveva dato ascolto a un uomo che gridava: “Maestro, ti prego di volgere lo sguardo a mio figlio, perché è l’unico che ho” (v.38). Il ragazzo era malato. Il Vangelo annota che “Gesù risanò il fanciullo e lo consegnò a suo padre” (v.42). Già, Lui lo consegna a suo padre, guarito. Anche Gesù era figlio unico. Noi, però, al Padre, che ce l’ha affidato, il Figlio, lo consegniamo morto. Eppure, era tutto scritto. Doveva, deve, essere così. Perché noi lo si conosca come Egli è. Ora ci dovremmo chiedere: dissipate le nubi dell’incomprensione, noi, che lo vogliamo seguire, come lo seguiremo? Come saremo anche noi “figli dell’uomo”, o, semplicemente, uomini (e donne, naturalmente) della sua razza? Ci lasceremo consegnare, consegnare le nostre vite, come segno del suo amore, sapendo che tutto può accadere: di vivere, finché si può vivere, ma anche di soffrire, di morire? Che poi è questo il mistero della croce. Consegnarsi. Liberamente.   

 

Oggi facciamo memoria di Rabbi Akiva , maestro in Israele.

 

25 AKIVA.jpgAkiva era nato a Lydda intorno al 50 d.C.  Figlio di un proselito di nome Yosef, fino a quarant’anni fu povero, ignorante e, per dire così, anticlericale. Soleva infatti dire: Se incontrassi uno studioso della Bibbia, lo morderei come un somaro (Talmud, Pesachim 49b). Era pastore alle dipendenze di un ricco soprannominato Kalba Savua, perché si diceva che chiunque entrasse nella sua casa affamato come un cane (kalba), se ne ripartiva satollo (savua). Lì si innamorò della bella figlia di lui, Rachel, che accettò di sposarlo a patto che si mettesse a studiare seriamente la Bibbia. E fu un successo. Anche se questo significò per lei, almeno in un primo momento, la perdita dell’eredità paterna. Divenuto maestro famoso, Rabbi Akiva non dimenticò mai le sue umili origini e fu molto amato dal suo popolo. Insegnava che, tutto ciò che ci accade, Dio lo volge prima o poi al nostro bene. Sosteneva anche che ogni essere umano è creato a immagine di Dio e che per piacere a Dio non è necessario conoscere e praticare la Legge di Mosè (che è prerogativa e vocazione particolare d’Israele). È sufficiente vivere secondo la morale dettata dalle norme elementari della legge di Noè (vivere secondo giustizia, non praticare idolatria, non commettere incesto, non uccidere, non rubare, non prostituirsi, non cibarsi di carne viva). Amò molto il Cantico dei Cantici, diceva che alla sua luce possiamo leggere tutta la Bibbia come un rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Questo lo spinse a battersi perché fosse incluso nel canone della Bibbia ebraica. Quando scoppiò la rivolta antiromana di Shimon Bar Kokhbà, la appoggiò con convinzione, convinto del suo carattere messianico. La rivolta fu soffocata nel sangue. Akiva, imprigionato per non aver obbedito al divieto imperiale di insegnare pubblicamente la Torah, fu condannato alla dilacerazione delle membra per mezzo di arpioni. La condanna fu eseguita il 25 settembre dell’anno 135 (9 del mese ebraico di Tishri) e Rabbi Akiva morì il giorno successivo, festa dello Yom Kippur. Le sue ultime parole furono: Adonai ehad. Il Signore è uno solo. 

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro del Qoeleth, cap. 11,9-12,8; Salmo 90; Vangelo di Luca, cap.9, 43b-45.

 

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

 

Sul cielo della nostra città fumo, fumo, fumo e ancora fumo. E noi senza sapere che fare. La nostra dona Nady è ancora a Goiânia, in attesa che l’assicurazione medica le comunichi se coprirà le spese dell’angioplastica a cui deve sottoporsi. In questi giorni, qualche problema di salute ce l’ha anche la nostra irmã Paula, che andrà a Goiânia lunedì. Affidiamo entrambe alla vostra preghiera amica.  

 

Per stasera è tutto. Nel congedarci, vi proponiamo una pagina di Irving M. Bunim a commento di un detto di Rabbi Akiva. La prendiamo dal suo libro “Ethics from Sinai” (Feldheim Publisgers). Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Rabbi Akiva diceva: Amato è l’uomo, poiché è stato creato a immagine di Dio; e come prova di questo amore gli fu dato sapere di essere stato creato a immagine di Dio, secondo quanto fu detto: “Perché Dio fece l’uomo a sua immagine”. (Pirqè Avot, III, 18). In questa Mishnà, Rabbi Akiva rivela il nucleo stesso del pensiero ebraico circa il carattere unico dell’uomo. Egli differisce, in termini chiari e inequivocabili, dal punto di vista secolare e profano, che considera l’essere umano niente più che un animale evoluto. L’ebraismo afferma che l’essere umano fu creato a immagine di Dio. Questo gli conferisce un valore irriducibile e inviolabile, così come stima e santità; è la sua sorgente intrinseca di dignità e rispetto. Come abbiamo già studiato, questo elemento di divinità nell’essere umano è la base per tutto l’amore, la considerazione e il rispetto che la Torah ci ordina di riservare ai nostri simili, ad ogni essere umano. È la paternità comune di un Dio che stabilisce irrevocabilmente la fraternità degli esseri umani. Un’altra conseguenza etica importante di questa dottrina è il principio dell’imitatio Dei: l’essere umano deve sforzarsi di emulare l’Onnipotente. Se noi ci portiamo dentro una scintilla di divinità, abbiamo, necessariamente, la capacità di imitare il nostro Creatore. “Così come Lui è pietoso e benevolo, sii anche tu pietoso e benevolo”. “Così come Lui è chiamato giusto… e fornisce di vestiti chi è nudo… fa’ lo stesso anche tu. Il Santissimo, sia Egli benedetto, visita gli infermi, così anche tu dovrai visitarli. Il Santissimo, sia Egli benedetto, seppellisce i morti… così dovrai fare anche tu… Il Santissimo, sia Egli benedetto, consola gli afflitti… così dovrai agire anche tu”.  Ma se non fossimo informati a questo proposito, non avremmo coscienza di nessuna somiglianza o corrispondenza tra il Creatore e l’essere umano. L’esistenza dell’anima, di questo elemento divino, non può essere provata dalla logica o dimostrata come conclusione necessaria di dati e fatti empirici. Per questo Rabbi Akiva dice: “come prova di questo amore gli fu dato sapere…”. È la Torah che rivelò all’essere umano queste importanti caratteristiche. (Irving M. Bunim, A Ética do Sinai).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Settembre 2010ultima modifica: 2010-09-25T23:27:00+02:00da fraternidade
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