Giorno per giorno – 23 Settembre 2010

Carissimi,

“Erode diceva: Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose? E cercava di vederlo” (Lc 9, 9).  In questi capitoli del Vangelo di Luca, ci si interroga ripetutamente sull’identità di Gesù. Lo fanno i suoi concittadini (Lc 4, 22), gli abitanti di Cafarnao (Lc 4, 36), Giovanni Battista (Lc 7, 20), gli invitati a casa di Simone (Lc 7, 49), i suoi stessi discepoli (Lc 8, 25), ed ora il rappresentante del potere, Erode Antipa, da oltre trentanni premier di Galilea. Il quale si rivela degno figlio di suo padre, quell’Erode il Grande, di cui i Vangeli dell’Infanzia narrano che, lui pure, desiderava vedere Gesù. Per ucciderlo, ovviamente. Come sempre il potere vuole uccidere, schiacciare, eliminare chi  (o ciò che) sospetta possa attentare alla sua logica, mettere a repentaglio i suoi interessi, insidiare il suo perpetuarsi nel tempo. Beh, se è di Erode che si tratta, allora, per una volta almeno, il Vangelo non parla di noi, ci è venuto da dire stamattina a commento del brano. E, invece, no. Erode, come figura del potere perverso, cova anche dentro di noi. Nei nostri atteggiamenti quotidiani e nelle nostre scelte pubbliche. Cioè, nei nostri comportamenti in casa, a scuola, sul lavoro, in chiesa, e nelle nostre opzioni politiche. Dato che oggi, che venga eletto un governo del malaffare, o il suo contrario, dipende dal nostro voto. E ciò che noi abbiamo scelto o sceglieremo è in qualche modo – salvo un clamoroso abbaglio di cui potremo sempre sia pur tardivamente pentirci – la proiezione di quello che siamo (o vorremmo essere),  di ciò che pensiamo, di come agiamo. E se noi ci si ha Lula, vorrà dire che. E se voi, invece, avete Berlusconi e Bossi. Perdinci, a noi ci corre un brividino lungo la schiena! Ma scherzi (neanche tanto) a parte, cosa ci spinge a “vedere” Gesù (sempre che davvero lo si voglia)? Cosa pensiamo di Lui? Cosa vogliamo farne? E, in precedenza, cosa abbiamo fatto dei richiami di Giovanni Battista, da lui inviato in avanscoperta per sondare il nostro terreno? Abbiamo preso sul serio i suoi inviti pressanti a ripensare il nostro modo di essere, a convertire la nostra maniera di pensare? O li abbiamo soffocati sul nascere?        

 

Il nostro calendario ci porta la memoria di Francisco de Paula Victor, prete afrobrasiliano al servizio della carità.

 

23 Francisco de Paula Victor.jpgFrancisco de Paula Victor venne al mondo in un fienile della “senzala”,  (l’abitazione riservata agli schiavi del tempo), di una piantagione nel municipio di Campanha (Minas Gerais). Era figlio della schiava Lourença Maria de Jesus e di padre ignoto. Il piccolo fu presto preso a benvolere dalla padrona della fazenda, dona Mariana Bárbara Ferreira, che si preoccupò di alfabetizzarlo e istruirlo. Ammirata per le qualità morali del ragazzo e per la sua disposizione allo studio, la donna chiese che gli fosse consentito entrare in seminario a Mariana, offrendo per lui in dote metà della fazenda Conquista, di sua proprietà. È facile imaginare quali e quante, in un ambiente esclusivamente di bianchi, fossere le umiliazioni e soperchierie a cui fu sottoposto durante tutto il periodo degli studi. I suoi biografi attestano che, però, egli “seppe sempre comprendere, perdonare e amare coloro che l’offendevano”. Sapendo, poi, col tempo, conquistare tutti con la sua mitezza e docilità. Ordinato prete, esercitò per 53 anni il suo ministero nella parrocchia di Três Pontas, dove gli toccò subire le stesse difficoltà del seminario, riuscendo tuttavia anche in questo caso a superare le barriere del pregiudizio razziale e attirando ben presto a sé gli abitanti, non solo della parrocchia, ma dell’intera regione. La sua azione pastorale si caratterizzò soprattutto per l’attenzione nei confronti degli ultimi, visitando gli ammalati, ospitando gli invalidi, occupandosi, benché lui stesso fosse poverissimo, dei più poveri. Morì il 23 settembre 1905. La sua salma restò esposta per tre giorni, per ricevere il pellegrinaggio devoto e riconoscente della sua gente.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro del Qoeleth, cap.1, 2-11; Salmo 90;  Vangelo di Luca, cap.9, 7-9.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

succoth.jpgI nostri fratelli ebrei sono entrati ieri sera al tramonto nella festività di Sukkoth (le “Capanne”), che si protrarrà per sette giorni. Ricorda i quarant’anni che il popolo ebreo trascorse nel deserto, dopo l’uscita dalla schiavitù in Egitto. In questa occasione ogni famiglia costruisce una capanna (succà), coperta di rami e di frasche, che lascia intravvedere il cielo, a simboleggiare la nostra disponibilità a lasciare che la luce di Dio entri sempre nelle nostre case e nelle nostre vite. Al suo riparo vengono consumate tutte le refezioni. Sukkoth costituisce, assieme a Pesach (Pasqua) e Shavuoth (Pentecoste), la terza delle feste di pellegrinaggio. Rappresentava anche la festa del raccolto autunnale. Il Levitico prescrive a suo riguardo: “Il quindici del settimo mese (ora Tishri è il primo mese), quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al Signore per sette giorni; il primo giorno sarà di assoluto riposo e così l’ottavo giorno. Il primo giorno prenderete frutti degli alberi migliori: rami di palma, rami con dense foglie e salici di torrente e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni” (Lv 23, 39-40). In base a quest’ordine si prepara il “lulav”, composto da un ramo di palma, tre di mirto, due di salice e, a parte, un frutto di cedro senza difetto. Tradizionalmente le quattro specie di vegetali del lulav simboleggiano i quattro diversi tipi di persone presenti nella comunità: alcuni sono sapienti e generosi (come il cedro, che è profumato e dà frutti buoni), altri sono sapienti, ma non generosi (come il mirto, che è profumato, ma non dà frutti), altri generosi, ma non sapienti (come la palma, che non profuma, ma dà frutti dolci e nutrienti), altri, infine, che non sono sapienti né generosi (come il salice che non profuma, né dà frutti). Dopo la benedizione in sinagoga, il lulav viene agitato in direzione dei quattro punti cardinali, perché la benedizione di Dio possa raggiungere tutto il mondo.  Il settimo giorno della festa è chiamato “Hosha’anah Rabbah” (“Oh salvaci”), una sorta di ultima chance per ottenere il giudizio favorevole di Dio, rimasto eventualmente in sospeso nello Yom Kippur. 

 

 

Bene, è tutto. Qui, mentre continua a bruciare la Serra Dourada,  ha cominciato a bruciare anche il Cantagalo, o l’Índio Deitado, il monte che sorge proprio davanti a noi. Il che comunica una tristezza infinita. Anche perché non dà l’impressione di voler smettere troppo presto.

 

Sul significato della succà, la caratteristica capanna che caratterizza la festa di Sukkoth, vi proponiamo qui di seguito un testo del Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, tratto dal suo libro “Le souci des autres au fondement de la loi juive” (Calmann-Lévy). Che è, per oggi, il nostro   

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ritorniamo su quanto ci dice la Mishna (Succà I, 1), a proposito del tetto della succà fatto di rami: l’ombra proiettata sul terreno dev’essere maggiore della luce che passa attraverso il fogliame. È interessante capire le parole che sono utilizzate in ebraico per designare l’ombra e la luce. “Ombra” si dice tsel ; “luce”, o, meglio, “calore”, si dice ‘hama. ‘Hama  è il sole nella sua forma maschile; ‘ham è anche il nome di uno dei tre figli di Noè. C’è qualcosa di violento nella parola ‘ham, una forma di focosità. Si tratta di ‘ham e non di or, che designa la luce nel senso estetico del termine. La parola ‘ham evoca nella cabala l’immagine che si ha di sé: quando uno si guarda allo specchio, il nostro riflesso può essere detto ‘ham. Il tetto della succà deve lasciar passare più ombra che luce, ma c’è anche una soglia oltre la quale troppa ombra rende la succà inadeguata a soddisfare il precetto. Identificare l’ombra con il suo eccesso significherebbe per noi identificarci con la parte che ci manca, ciò di cui siamo in difetto, il nostro negativo. Ma coloro che hanno troppa coscienza della loro fragilità possono finire per rappresentarsi come la somma delle loro insufficienze, essi sono allora esclusivamente critici, incapaci di ammettere la minima positività. Questa parte d’ombra di cui abbiamo parlato, in opposizione a un narcisismo devastatore, è necessaria, a patto che essa non assuma troppa importanza; diversamente la succà diverrebbe il luogo di una identificazione con le nostre insufficienze. Ridotti alle nostre mancanze, incarneremmo l’alterità deficiente del mondo. La minaccia dell’indeterminato, del deserto, assumerebbe allora la forma di un’alternativa troncata, di un tutto o niente: vuoi la luce eccessiva, vuoi l’oscurità assolutamente indistinta. Questa preoccupazione che l’ombra e la luce obbediscano a una giusta proporzione rinvia al tipo di comportamento sociale che si deve adottare nella succà, spazio che si condivide mangiando e parlando con gli altri. La succà, così descritta, è un luogo la cui fragilità è sufficientemente caratterizzata per consentire di rimettere in causa le proiezioni di sé e le tentazioni fusionali, al fine di stabilire con gli altri un rapporto che sia rispettoso delle mediazioni. La preponderanza dell’ombra indica simbolicamente la fragilità di questi rapporti, in assenza di una Legge che, all’epoca della prima permanenza nella succà del deserto, non era ancora stata data. (Gilles Bernheim, Le souci des autres au fondement de la loi juive). 

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 23 Settembre 2010ultima modifica: 2010-09-23T23:57:00+02:00da fraternidade
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