Carissimi,
“Se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 24, 48-51). Con il capitolo 24 del Vangelo di Matteo si apre il quinto e ultimo dei discorsi in cui l’evangelista ha organizzato gli insegnamenti di Gesù: il Discorso escatologico. Quello relativo ai tempi ultimi che l’evento di Gesù ha inaugurato. Il discorso era partito da una domanda dei discepoli a Gesù, motivata dalla sua previsione circa la distruzione del tempio di Gerusalemme: “Quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?” (Mt 24, 3). Che, per i discepoli, dovevano probabilmente coincidere ed essere così la stessa cosa. Ora, alle religioni e alle chiese, forse, qualche volta (ma sempre, sperabilmente, per un nobile scopo), piace metter paura. A Gesù, no. Diversamente, non sarebbe Buona Notizia. Così, Lui non si mette lì con la palla di cristallo per soddisfare la curiosità dei discepoli, dà invece istruzioni su come vivere il tempo dell’attesa (che comprende da sempre anche le catastrofi) e del cammino della storia verso il suo compimento, segnato dalla venuta del Signore. Quando?, viene da chiedercelo spesso anche a noi. Ora. Ad ogni momento. Il suo sguardo che ci richiama alla libertà e, perciò, alla responsabilità dell’azione è sempre presente, e siamo in definitiva noi (anzi, il suo Spirito in noi) a poter “dar corpo” al suo ritorno, anticipare (come direbbero i nostri fratelli ebrei) la venuta dei tempi messianici, prendendoci cura gli uni degli altri (Mt 24,45). O scegliere invece di porci al servizio dell’antiregno, opprimendo gli altri a volontà, ingozzandoci di potere e ubriacandoci di impunità. Ma saremo puniti severamente. Come? Quando? Vallo a sapere. Forse già oggi, domani. E non ci sarà verso di recriminare: moralista, o comunista di un Dio! Che non ci lascia in pace.
Oggi facciamo memoria di Tikhon di Zadonsk, monaco e pastore, e di Maryam Bawardy, contemplativa e mistica palestinese.
Nato a Korotsk nel 1724, Timoteo Savelic Sokolov, che come monaco assumerà il nome di Tikhon, fu ordinato presbitero nel 1754. Sette anni più tardi fu consacrato vescovo ausiliare di Novgorod e nel 1763, nominato vescovo di Voronezh, ufficio che ricoprirà fino al 1767, quando, per motivi di salute, chiese ed ottenne di ritirarsi a vivere nel monastero di Zadonsk. Mistico, uomo d’azione e predicatore instancabile della giustizia sociale, Tikhon ebbe una visione di chiesa assai poco istituzionalizzata, nutrì un profondo sentimento di carità e di misericordia verso tutti gli uomini considerati come fratelli, e sentì sempre un’intensa sofferenza emotiva per la Passione di Cristo. L’amore nei confronti dei più umili, poveri e oppressi fu il tratto caratteristico, che ne fece uno dei santi più amati della Russia moderna. I suoi biografi raccontano che, dopo aver deciso di ritirarsi a Zadonsk, vendette le vesti e le suppellettili che gli erano derivate dall’esperienza vescovile, e distribuì il ricavato ai poveri. Negli anni successivi continuò come aveva cominciato: distribuendo a questi ciò che riceveva e comprando per loro ciò di cui non disponeva: abiti, calzature, cibo, ma anche capanne e bestiame, cavalli e mucche. Visse gli ultimi quattro anni della sua vita monastica come recluso. Morì il 26 agosto (13 agosto secondo il calendario giuliano) del 1783.
Mariam Bawardy era nata ad Abellin in Galilea il 5 gennaio 1846, da Maryam Chahynda e George Bawardy, una coppia di arabi cristiani di rito melchita, molto provati dalla vita, avendo perduto dodici figli tutti in tenera età. Poco dopo la nascita di Maryam e, un anno più tardi, del fratello Boulos, entrambi i genitori, a distanza di pochi mesi uno dall’altro, morirono, così i bimbi vennero affidati uno alle cure di una zia paterna, e l’altra a quelle di uno zio paterno, che, nel 1854, si trasferì ad Alessandria d’Egitto. A dodici anni Maryam, secondo i costumi locali, fu fidanzata a sua insaputa ad un parente, che lei, tuttavia, rifiutò, avendo già maturato in cuor suo la volontà di consacrarsi al Signore. Pochi mesi dopo, l’8 settembre 1858 fu guarita miracolosamente da una ferita alla gola provocata da un colpo di scimitarra. Negli anni successivi, lavorò come domestica, prima ad Alessandria, poi a Gerusalemme, a Beirut e, infine, a Marsiglia, dove si era recata al seguito di una famiglia siriana, di cui era a servizio. Decisa ad entrare nella vita religiosa, nel 1865, fu accolta come postulante nell’Istituto delle Suore di San Giuseppe dell’Apparizione, ma dovette uscirne per i fenomeni mistici che cominciarono a manifestarsi in lei. Nel 1867 entrò nel Carmelo di Pau (Bassi Pirenei), come conversa, essendo analfabeta, e prese il nome di Maria di Gesù Crocifisso. Nell’agosto 1870, ancora novizia, partì per l’India per la fondazione di un Carmelo a Mangalore, dove, il 21 novembre 1871, fece la sua professione religiosa. Un anno dopo fu rimandata a Pau, da dove partì con altre otto religiose nell’agosto 1875 per Betlemme, a fondarvi il primo Carmelo in terra di Palestina. La sua vita religiosa fu ovunque accompagnata da estasi, levitazioni, visioni, stigmate, predizioni e profezie. Il che, anche se lei non smise mai di lavorare duro, le causò non pochi problemi. Dato che la gente comune in genere va con i piedi per terra. Definiva se stessa “il piccolo nulla”. Morì, a trentadue anni, il 26 agosto 1878 a Betlemme a causa di una cancrena, sviluppatasi in seguito ad una frattura multipla al braccio, causata da una caduta. Giovanni Paolo II la beatificò il 13 novembre 1983.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Corinzi, cap.1, 1-9; Salmo 145; Vangelo di Matteo, cap.24, 42-51.
La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.
Stamattina è partita Nadia, che fa così ritorno in Italia, dopo aver condiviso per cinque settimane la vita del bairro. Inutile dire che la sua partenza ha seminato saudade nel cuore della nostra gente e, scommettiamo, anche nel suo. Il che è, ovviamente, di buon auspicio.
Le agenzie hanno diffuso da poco la notizia della scomparsa di Raimon Panikkar, avvenuta, questo pomeriggio, nella sua casa di Tavertet (Barcellona), all’età di 91 anni. Prete, filosofo, teologo, scrittore, Panikkar era nato il 3 novembre 1918, a Barcellona, da padre indiano (e di religione indù) e da madre catalana e cattolica. In tutta la sua opera, così come nella sua esistenza, volle testimoniare e incarnare i valori del dialogo, dell’ecumenismo e del pluralismo. Soleva dire: “Sono stato cristiano, mi sono scoperto induista, sono diventato buddista, senza cessare di essere cristiano”. Pensiamo che, in futuro, avremo modo di reincontrarlo e di ricordarlo, parlando di lui e lasciandolo parlare. Ma già stasera, congedandoci, vogliamo offrirvi questa citazione tratta da un suo articolo apparso su La Repubblica del 9 Ottobre 2007 con il titolo “Il tempo del perdono e la logica del nemico”, che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
C’è una strada da esplorare per non cadere negli scontri di civiltà ideologicizzati: è quella della pace e del perdono. A mio parere c’è una relazione diretta tra pace e perdono. Ho scritto tanti anni addietro che soltanto il perdono rompe la legge del karma, dell’occhio per occhio e dente per dente. Il perdono ha una dimensione che lo rende così grande e difficile: è un atto eminentemente religioso. Il perdono se non esce dal cuore non è tale. Io posso non vendicarmi, ma la ferita continua. Detto in termini teologici: il perdono è una decreazione. Se la creazione è fare dal nulla una cosa, il perdono è fare che quella cosa torni al nulla. E perciò non ho bisogno di vendetta, non ho bisogno di restituzione, non ho bisogno di nulla. La grande difficoltà consiste in come sia possibile tradurre ciò in termini politici. Non ho una soluzione, ma ho due commenti. Il primo commento è che tutti i nostri grandi sforzi per chiedere la restituzione di un danno subito (evitando il perdono) non hanno funzionato per quaranta secoli. Mentre il perdono, realmente, ancora non lo abbiamo provato. Il secondo commento è che il perdono ha un effetto catartico, purificatore così importante che cambia l’altro. L’altro si rende conto che ha fatto una cosa che non andava bene e che tu lo hai ripagato con un atto unilaterale di perdono: per tutta la vita sarà felice e fedele, perché lo hai guarito, per sempre, con il tuo perdono. Però bisogna essere chiari su un tema così delicato. Il perdono non è azione-reazione. Ha bisogno di un tempo di maturazione, per perdonare è necessario aspettare. Sapere aspettare costa, e noi viviamo in una civiltà che vorrebbe fare tutto immediatamente. C’è un tempo per il perdono che non è la reazione istantanea all’offesa. Sarebbe quasi una burla, o un’impunità. Il perdono ha un tempo di maturazione, è una decisione che arriverà a suo tempo. Se non c’è stata questa maturazione interiore, io non sarò disposto a perdonare, perché ancora sento la ferita, né l’altro sarà pronto a riconoscerlo, perché si sentirebbe impunito. Trovare questo equilibrio tra tempo e atto del perdonare è importantissimo. (Raimon Panikkar, Il tempo del perdono e la logica del nemico).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.