Giorno per giorno – 12 Agosto 2010

Carissimi,

“Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18, 21-22). Pietro aveva pensato di esagerare: sette volte infatti voleva già dire “sempre”, e Gesù, conoscendo la nostra debolezza, avrebbe potuto rispondergli: beh, basta tre, quattro, cinque, sei volte. E noi ci saremmo sentiti più tranquilli. O almeno, così, ci capita spesso di credere. Lui, però, che conosce i misteri del cuore umano più di chiunque altro, porta all’infinito l’esagerazione di Pietro: “settanta volte sette” sarebbe come dire, se si potesse dire, “semprissimo”. Perché, il mancato perdono non necessariamente e in primo luogo toglierà pace al soggetto da perdonare, ma continuerà a seminare inquietudine in colui che non perdona. Finché non perdona. Tutti, una volta o l’altra, ne abbiamo fatto l’esperienza. E, se vogliamo capirlo, sono questi gli aguzzini della parabola (v.34), a cui il buon Dio, benevolmente, ci consegna, finché riusciamo a pagare tutto il dovuto e ritrovando, in noi per primi, la pace, possiamo poi contribuire ad instaurarla in questo nostro mondo. E, con essa, il regno.

 

Le memorie di oggi sono tutte brasiliane. Ricordiamo infatti: Margarida Alves, martire per la giustizia, padre Alfredinho Kunz, missionario del “Servo sofferente”, mons. Antônio Batista Fragoso, vescovo dei poveri. 

 

12_MARGARIDA_ALVES.JPGMargarida Alves era nata il 5 agosto 1933 da una famiglia contadina di Alagoa Grande, nello Stato di Paraíba. Militante cristiana, fin da giovane, aveva imparato dall’ascolto del Vangelo la compassione per i suoi fratelli poveri e il desiderio di impegnarsi nella costruzione del Regno. Nel 1973 fu eletta presidente del Sindacato dei Lavoratori Rurali di Alagoa Grande. A partire da allora, per tutti gli anni in cui rivestì questo incarico, furono circa seicento le cause giudiziarie intentate dal sindacato nei confronti di latifondisti, coltivazioni di canna e zuccherifici della zona. La sua azione fu costantemente indirizzata alla difesa dei diritti di contadini e braccianti, alla rivendicazione della tredicesima, agli aumenti di salario dei “canaveiros” (i braccianti impiegati nelle piantagioni di canna), e a rivendicare per loro condizioni più umane di lavoro. Fu anche una delle fondatrici del Centro di Educazione e Cultura del Lavoratore Rurale, la cui finalità è, ancor oggi, di contribuire alla costruzione di un modello di sviluppo rurale e urbano sostenibile, a partire dal rafforzamento dell’agricoltura famigliare. Con la nascita del Piano Nazionale di Riforma Agraria, i latifondisti intensificarono fortemente la violenza nelle zone rurali del Paese. Il 12 agosto 1983, Margarida fu assassinata sulla porta di casa con un colpo di fucile, sparato da una auto, che la raggiunse al volto, alla presenza del figlio e del marito. I mandanti facevano parte del Gruppo di Várzea, composto di 60 fazendeiros, 3 deputati e 50 sindaci della regione. La polizia identificò l’assassino, ma non riuscì a catturarlo. Il processo, protrattosi per anni, non fece giustizia. Dei responsabili e complici, alcuni morirono nel frattempo, altri furono arrestati con altre imputazioni, l’autista fu assassinato per eliminare un testimone scomodo. Ma l’esempio e l’insegnamento di Margarida rimane vivo nelle lotte della sua gente.    

 

12 ALFREDINHO II.jpgAlfred Kunz, il padre Alfredinho, era nato in Svizzera  il 9 febbraio 1920. Fece parte della Gioventù Operaia Cattolica (JOC) e lavorò come operaio. L’esperienza della prigionia in un campo di concentramento nazista durante la Seconda Guerra Mondiale  gli rivelò l’orrore che ogni guerra e violenza rappresentano e fece crescere e maturare in lui l’ideale e la pratica della nonviolenza attiva contro ogni tipo di oppressione.  Divenuto sacerdote, giunse in Brasile nel 1968. Qui, nella diocesi di Crateús, definì e diede concretezza alla sua opzione radicale per i poveri, vissuta nella fatica del quotidiano, più che proclamata a parole, contentandosi dell’indispensabile, senza mai lasciarsi vincere dalla tentazione del consumismo o dello spreco, che così spesso attecchisce anche negli ambienti clericali. Nel 1988 si trasferì a Santo André (São Paulo),  scegliendo di vivere la sua vita di preghiera e di condivisione tra i dannati della terra della favela Lamartine. Nel 1995, già settantacinquenne, estremista come ogni santo che si rispetti, decise di abitare con i barboni  per le strade, sotto i viadotti, dormendo all’aperto, mantenendosi con i rifiuti della società dell’opulenza. Restò li finché la salute glielo permise. Poi tornò nella favela, dove morì il 12 agosto del 2000, nel silenzio e nell’abbandono. Aveva voluto seguire Gesù (il Servo Sofferente per eccellenza) servendolo nei poveri, condividendone la vita, mettendosi in ascolto del loro magistero.  Fondò la Fraternità del Servo sofferente, che ne è l’erede spirituale. I suoi membri portano come segno di riconoscimento un pezzo di sfoffa che ricorda la divisa da detenuto e il numero di identificazione di Massimiliano Kolbe, martire e santo del campo di sterminio nazista di Auschwitz.

 

12 Dom Antonio B. Fragoso.jpgAntônio Batista Fragoso era nato a Teixeira (Paraíba) il 10 dicembre 1920. Dopo gli studi in seminario, venne ordinato sacerdote il 2 luglio 1944. Fu dapprima assistente ecclesiastico del Circolo Operaio di João Pessoa, poi, dal 1947, per dieci anni, assistente della Gioventù operaia cattolica (JOC) del Nordeste. Nominato, il 30 marzo 1957, vescovo ausiliare di São Luis do Maranhão, da Pio XII, Dom Fragoso ricevette la sua consacrazione episcopale il 30 maggio dello stesso anno. Nel 1964 Paolo VI lo nominò primo vescovo di Crateús (Ceará), poche settimane dopo il golpe, che privò il Brasile della sua libertà e inaugurò il ventennio dominato dal regime militare. In tutto questo tempo, Dom Antônio si dedicò instancabilmente alla difesa dei diritti umani e politici, soprattutto nei cosiddetti “anni di piombo” (1968-1974). Fece suo il progetto di vita tratteggiato dal Patto delle Catacombe, un documento sottoscritto da circa 40 padri conciliari il 16 novembre 1965, nelle catacombe di Domitilla, a Roma, poco prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Con esso, i vescovi si impegnavano a condurre una vita di povertà, rifiutando ogni insegna, simbolo e collusione col potere e collocando i poveri al centro del loro ministerola pastorale. S’impegnavano altresì a favorire lo sviluppo della collegialità e della corresponsabilità nelle relazioni ecclesiali, l’apertura al mondo e l’accoglienza fraterna. Sempre a partire dai tempi del Concilio, fece parte con Mons. Bettazzi e una ventina di Padri conciliari di diversi continenti della Fraternità dei Piccoli Vescovi, che si ispiravano alla figura e alla spiritualità di Charles de Foucauld. Assieme al Premio Nobel per la Pace, Adolfo Perez Esquivel, fondò il Servizio per la Pace e la Giustizia in America Latina (SERPAJ-AL), che contribuì grandemente alla difesa dei Diritti Umani e alla diffusione degli ideali e della pratica della Nonviolenza. Con Padre Alfredinho, di cui facciamo memoria in questo stesso giorno, aveva fondato la Fraternità del Servo Sofferente. Nel febbraio del 1998, lasciata, per raggiunti limiti di età, la sede di Crateús, si ritirò a vivere in una casetta accanto a una favela di João Pessoa. Morì il 12 agosto  2006.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Ezechiele, cap.12, 1-12; Salmo 78; Vangelo di Matteo, cap.18,21 – 19,1.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

Nella breve biografia di Dom Antonio Batista Fragoso, abbiamo accennato al Patto delle Catacombe, a partire dal quale il nostro vescovo costruì il suo progetto di vita. Convinti dell’importanza che quel documento ebbe e avrà per la vita di una Chiesa che voglia avere pastori seguaci fedeli di Gesù di Nazareth, scegliamo di proporvelo nella sua integrità.  È questo per oggi il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue: – 1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende (cf Mt 5,3; 6,33s; 8,20).  – 2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici) (cf Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative (cf Mt 6,19-21; Lc 12,33s). – 3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli (cf Mt 10,8; At. 6,1-7). – 4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre (cf Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15). – 5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi) (cf Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19). – 6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale (cf Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4). – 7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro (cf Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27).  – 8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti (cf Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s). – 9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio (cf At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16). – 10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere; – a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria. – 11. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: –  ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; – formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; – cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; – saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione (cf Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10). Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Aiutaci Dio ad essere fedeli. (Patto delle Catacombe).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Agosto 2010ultima modifica: 2010-08-12T23:30:00+02:00da fraternidade
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