Carissimi,
“Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 31-33). No, non è ciò che sembrerebbe a prima vista. Gesù non è esattamente, anche se talvolta non dispiacerebbe immaginarlo, un figlio dei fiori ante litteram, né il regno dei cieli è propriamente il paradiso, tanto meno di quelli artificiali. Sta invece istruendoci sulla necessità di passare da una logica individualistica nel soddisfacimento dei bisogni, alla preoccupazione per la “salvezza”, cioè la liberazione di tutti. Che è ciò che caratterizza il regno del Padre. Ed è ciò su cui i cristiani fanno, in gran numero e da sempre, orecchio da mercante. Come dargli torto del resto? È una richiesta così contronatura, che persino le grandi rivoluzioni, che l’assumono come slogan, finiscono per arenarvisi e fallire. Ma Gesù non desiste: “Cercate, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia”: il resto verrà da sé. Per tutti. Questa è la fede che Lui chiede da noi.
Il nostro calendario ci porta la memoria di Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, e di Sebastian Newdigate e compagni, monaci e martiri in Inghilterra.
Nato a Ravenna intorno al 952, Romualdo scelse la vita monastica dopo un tragico avvenimento che aveva colpito la sua famiglia: il padre, Sergio, duca di Ravenna, aveva ucciso un parente nel corso di un duello. Fu dapprima monaco nel monastero benedettino di S. Apollinare in Classe, nella città natale. Ma dovette stancarsene presto, distante come vedeva la vita di quei monaci dal rigore e dalla radicalitá testimoniata dagli antichi padri del deserto. Trascorsi dieci anni nel monastero di San Michele di Cuxa, sui Pirenei, Romualdo tornò in Italia e si trasferì in Toscana, dove, a Campo Maldoli, fondò un monastero in cui i monaci potessero tradurre l’opzione monastica in una vita basata sul lavoro manuale, la preghiera, le veglie e il digiuno, e dove, dopo un periodo di tempo vissuto in comunità, potessero ritirarsi nella solitudine di un eremo. Nacque così, entro la famiglia benedettina, l’ordine Camoldolese, che nel 1113 vedrà riconosciuta la sua autonomia. Romualdo fu un uomo calato nei problemi del suo tempo, preoccupato per l’evangelizzazione della gente e per la riforma del clero. Presentendo la morte, si congedò da ciascuno dei suoi monaci e volle morire da solo, senza che nessuno fosse presente, nel monastero di Val di Castro, il 19 giugno 1027.
Dopo la rottura di Enrico VIII con Roma, era stata imposta ai sudditi l’approvazione del ripudio, da parte del re, della regina Caterina d’Aragona e quindi l’accettazione come sovrana di Anna Bolena. Pur con qualche incertezza i monaci della Certosa di Londra, nel 1534, sottoscrissero il documento, convinti che questo non pregiudicasse la loro fede. Quando però, qualche mese più tardi, un nuovo decreto stabilì che tutti riconoscessero la supremazia del re sulla chiesa d’Inghilterra, il loro priore, John Houghton, riunì la comunità per decidere il da farsi e unanime fu la scelta dei monaci di non aderire a tale ingiunzione. Questo segnò però il destino loro e di altri religiosi che ad essi si erano nel frattempo aggiunti. Arrestati, rinchiusi nella Torre di Londra, e torturati a più riprese, i primi di loro furono impiccati il 4 maggio 1535. Sebastian Newdigate era stato confessore del re e Enrico VIII nutriva per lui sufficiente affetto da spingerlo a visitarlo personalmente in carcere, al fine di convincerlo a sottoscrivere il documento. Fu tutto inutile. Rifiutate le offerte e sottoposto a torture, egli e altri due compagni, Humphrey Middlemore e William Exmew, furono, il 19 giugno 1535, impiccati, sventrati e squartati nella piazza del Tyburn. Altre morti sarebbero seguite nei mesi successivi.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2°Libro di Cronache, cap. 24, 17-25; Salmo 89; Vangelo di Matteo, cap.6, 24-34.
La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.
Oggi, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi compie 65 anni. Lei avrebbe potuto continuare a preoccuparsi solo per sé: il pane, il companatico, molti altri diritti e libertà li aveva abbondantemente assicurati. E, invece no. Da oltre vent’anni ha deciso di giocare la sua vita, la sua libertà e i suoi diritti per la vita, la libertà e i diritti degli altri. Questo è ciò che per Gesù è la logica del regno. Anche se questa piccola, grande donna, saprà forse poco di Gesù, dato che è buddhista. Aung San Suu Kyi non ha bisogno dei nostri auguri. È lei ad essere un augurio per noi, per il mondo. Dal suo libro “Liberi dalla paura” (Edizioni Sperling& Kupfer), prendiamo questa citazione che vi proponiamo, nel congedarci, come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
L’autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo. Senza una rivoluzione dello spirito, le forze che hanno prodotto le iniquità del vecchio ordine continuerebbero a operare, rappresentando una minaccia costante al processo di riforma e rigenerazione. Non è sufficiente limitarsi a invocare libertà, democrazia e diritti umani. Deve esistere la determinazione compatta di perseverare nella lotta, di sopportare sacrifici in nome di verità imperiture, per resistere alle influenze corruttrici del desiderio, della malevolenza, dell’ignoranza e della paura. È stato detto che i santi sono i peccatori che continuano a provare. Allo stesso modo, gli uomini liberi sono gli oppressi che insistono e che in questo processo si preparano ad assumere le responsabilità e a sostenere le discipline che mantengono una società libera. Fra le libertà essenziali cui gli uomini aspirano per arricchire la propria vita, la libertà dalla paura spicca contemporaneamente sia come mezzo sia come fine. Un popolo che vuole costruire una nazione, in cui siano fermamente stabilite istituzioni salde e democratiche quali garanzie contro il potere statale, deve innanzitutto imparare a liberare la propria mente dall’apatia e dalla paura. (Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.