Giorno per giorno – 11 Giugno 2010

Carissimi,

“Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta” (Lc 15, 4-6). Mauro, che stamattina è stato con noi per l’ultima volta, prima di far ritorno alla Chácara Paraíso, appena Dominga, la sua compagna, ha terminato di leggere il Vangelo, ha detto subito: “Io ringrazio nostro Signore Gesú Cristo, perché questa è la mia storia, e quella pecora sono io, e lui ha avuto la pazienza e la costanza di venirmi a cercare, mi ha caricato in spalla e riportato a casa, così ora, invece che morto, o in prigione, o chissà dove, sono qui, pronto, con il suo aiuto, a cominciare una nuova vita. E io posso solo ringraziare”. Lo ha detto di sé, ma noi altri si sapeva bene quanto questo fosse vero, forse in modo solo diverso e meno evidente, anche per ciascuno di noi. C’è da aggiungere che Gesù è ottimista riguardo ai suoi, li vede decisamente migliori di quello che sono: chi di voi non lascerebbe le novantanove pecore, per mettersi alla ricerca di una? Nessuno, ovviamente. Lui lo dice solo per non fare la figura del primo della classe. O anche per metterci la pulce nell’orecchio. Perché ci si dia una mossa, e almeno ci si accorga se e quando qualcuno si perde per strada. O esce dal nostro orizzonte. Lui se ne accorge subito, perché ciascuno(a) di noi è unico(a) al suo sguardo, sua sola ragion d’essere. Per descrivere il grado di “dipendenza” di Dio nei nostri confronti, quale che sia l’esperienza che viviamo o che abbiamo vissuto, Paolo scrive: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 6-8). Il Regno può cominciare ad accadere quando noi ci si senta investiti e invasi per davvero da questa verità: Lui muore per dare la sua vita a “me-così-come-sono”. Allora, si scopre tutta la mediocrità del nostro essere cristiani (o semplicemente uomini), e sua chiesa, o suo popolo, sua umanità, ma si coglie nello stesso istante la grazia del suo perdono. Che non solo ci consente di non disperare, ma ci consegna ad una speranza che “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5). E, allora, chi ci ferma più? Noi diventiamo Lui e trasformiamo il mondo. Che, poi, invece, se il mondo è come è, in preda all’ingiustizia, all’oppressione, all’odio, alla violenza, è perché Lui non ci ha ancora trovati, e noi si è ancora perduti chissà dove.    

 

Il buon pastore.jpgOggi è dunque la Festa del Cuore di Gesù.  Ovvero del suo amore. Per conoscere e sperimentare il quale, l’apostolo Paolo prega così: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 17-19). Un’umanità abitata dalla pienezza di Dio: è il suo sogno.   

 

I testi, dunque, proposti alla nostra riflessione dalla liturgia odierna sono tratti da:

Profezia di Ezechiele, cap.34, 11-16; Salmo 23; Lettera ai Romani, cap.5, 5b-11; Vangelo di Luca, cap.15, 3-7.  

                 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

Il calendario ci porta oggi la memoria di Barnaba, apostolo, e di Luca di Simferopol, pastore al servizio dei poveri.

 

11 BARNABA.jpgBarnaba in realtà si chiamava  Giuseppe ed era un levita, nativo di Cipro. Quando si era fatto cristiano, aveva venduto il suo campo e, il ricavato, l’aveva depositato ai piedi degli apostoli ed era stato grazie a lui, presto soprannominato Barnaba (“figlio della consolazione” o, forse, più probabilmente, “figlio della profezia”), che l’appena convertito persecutore dei cristiani Saulo-Paolo era stato ammesso nella cerchia dei discepoli, piuttosto diffidenti nei suoi confronti. Fu ancora lui ad essere inviato a prendere contatti con la neonata comunità di Antiochia di Siria, presso la quale poi portò Paolo. Insieme con questi organizzò la raccolta di aiuti per la chiesa madre di Gerusalemme, dove la popolazione soffriva la fame per una carestia. Tornati a  Gerusalemme progettarono il primo viaggio missionario, quello in cui Marco darà forfait e che li porterà a Cipro e in una parte dell’Asia Minore. Di nuovo a Gerusalemme, parteciparono alla discussione sugli obblighi che i cristiani provenienti dal paganesimo dovevano assumere. Il mancato accordo con Paolo sul secondo viaggio missionario, porterà alla separazione definitiva dall’antico compagno. Ritenendo che Marco avesse più bisogno di lui che non l’altro, Barnaba se ne andò con lui a Cipro. Qualche anno dopo, le carte si rimescolarono. Sappiamo dalle lettere di Paolo che Marco stava con lui e, sempre Paolo, spenderà, nella lettera ai Corinzi, sette-otto anni dopo la separazione, una parola di elogio per Barnaba, perché anch’egli si manteneva con il suo lavoro. Ma non sappiamo dove, né come. Forse, azzardiamo, nella nativa Cipro.  Luca, l’autore degli Atti degli apostoli, avendo preso partito per Paolo, non ce ne dice nulla. Una tradizione vuole che si sia recato a Roma e a Milano, per predicarvi l’evangelo, e che sia più tardi morto martire a Salamina verso l’anno 63.

 

11 st Luke.jpgValentin Feliksovic Wojna-Jasieniecki era nato il 14 aprile 1877 a Ker, in Ucraina, da una nobile famiglia polacca. Nel 1917, dopo gli studi in medicina, si era trasferito, con la famiglia che aveva nel frattempo costituito, a Taskent, dove aveva ottenuto il posto di chirurgo primario nel locale ospedale. Nello stesso periodo, la moglie si era ammalata di tubercolosi e, nel 1919, era morta, lasciandolo vedovo con quattro figli a carico. Nel 1921, accettata la proposta di abbracciare lo stato ecclesiastico avanzatagli dal vescovo della città, fu ordinato presbitero, pur continuando ad esercitare la professione, con un’attenzione particolare per i più poveri, e ad insegnare all’università. Prima di ogni operazione, padre Valentin soleva raccogliersi in preghiera e volle sempre tenere le sue lezioni, indossando l’abito sacerdotale. Nel 1923, dopo aver preso i voti monastici e assunto il nome di Luca, fu eletto vescovo di Taskent. Il suo ministero pastorale, nel  fu contrassegnato da persecuzioni, arresti, prigionie, condanne al confino. Nel 1942, alla fine della sua ultima prigionia, il metropolita Sergio Stratogorskij lo nominò arcivescovo di Krasnojarsk, in Siberia. Nel 1946, su richiesta delle autorità che mal tolleravano la sua attività,  fu trasferito alla chiesa di Simferopol, in Crimea, dove rimase fino alla morte, che lo raggiunse più che ottuagenario e ormai quasi cieco, l’11 giugno 1961. Per quanto lui stesso poverissimo, e forse proprio per questo, era sempre stato fedele nell’aprire le porte della sua casa agli ultimi e più poveri, in totale umiltà e mansuetudine.

 

Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di Luca di Simferopol, tratta da una sua omelia su questa preghiera di S. Efrem di Nisibi: “O Signore e Sovrano della mia vita, non permettere che sopravvenga in me uno spirito di accidia, di scoraggiamento, di brama di potere e di ozio. Concedi a me, tuo servo, uno spirito di castità, di umiltà, di pazienza e d’amore. Sì, mio Signore e Re, concedimi di vedere i miei difetti e di non giudicare mio fratello. Tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen”.  La troviamo nel sito “incendiarious.wordpress.com” ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Voi sapete che le cose hanno il loro proprio caratteristico odore. Se voi lasciate nella vostra camera i vostri indumenti, le stoviglie e tutto ciò che eravate soliti usare e poi la chiudete e ve ne venite via, in essa rimarrà comunque il vostro odore, cioè l’odore di quelle cose. Sapete anche che, se si versa una sostanza profumata in un contenitore, che poi viene svuotato e ripulito, l’aroma vi rimarrà comunque per un certo tempo, e così se vi si versa qualcosa di maleodorante, l’odore resterà ugualmente per molto, molto tempo. Lo stesso accade nell’animo umano. Nell’anima delle persone, tutti i vizi, che portano a peccare, lasciano il loro odore, la loro traccia. D’altro canto, anche tutto il bene che esse compiono lascia la sua luce. Se una persona ha sempre compiuto cattive azioni, se la sua anima è sempre stata alimentato dai vizi, allora in essa rimane sempre l’odore di quei vizi. Se una persona vive una vita buona e fa molto bene, se santifica costantemente la sua anima con la preghiera, allora essa viene impregnata dalla fragranza della preghiera, dal profumo della virtù, dall’aroma dela giustizia. L’esperienza ci dice che si può, anche solo dopo una breve conoscenza, a volte addirittura al primo incontro, percepire lo spirito di una persona. Quando incontriamo una persona che sguazza nel peccato, presto percepiamo di che spirito è. Accade come ad un cane che segue con il suo fiuto le tracce lasciate da una persona e vi conduce fino ad essa. […]  Bisogna sapere che è assai più facile sbarazzarsi dei propri vizi che del loro spirito. Il loro spirito resta, infatti, saldamente attaccato al nostro cuore e disfarsi completamente di esso è possibile solo poco a poco, pregando Dio, perché ci aiuti a liberarcene. (Luke of Simferopol, Homily One on the Prayer of St. Ephrem).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunià del bairro.

Giorno per giorno – 11 Giugno 2010ultima modifica: 2010-06-11T23:54:00+02:00da fraternidade
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