Giorno per giorno – 09 Giugno 2010

Carissimi,

“Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Mt 5,19). Continua il discorso di Gesù ai suoi discepoli. E quello di Matteo alla sua comunità, quarant’anni dopo, e alla nostra, oggi.  La Scrittura è la Parola di Dio, o ci crediamo o no. E, se ci crediamo, non passa. Si adempie. La Legge, la Torah, è più di una semplice legge, è l’insieme degli insegnamenti che Dio ci comunica attraverso la storia del suo popolo, che per noi cristiani è orientata al compiersi dell’evento di Gesù. La Torah orale, che, a dire il vero, aveva anticipato quella scritta, dopo la redazione di questa, continuò, lungo i secoli, attraverso lo studio intrapreso dai Maestri, a ricercarne i significati reconditi al di là della sua nuda lettera, per attualizzarla ogni volta, renderla comprensibile e praticabile. Tali insegnamenti sarebbero poi confluiti a formare la Mishnah e, successivamente, con i commenti su di essi (Gemarà), avrebbero costituito il Talmud, completato intorno al 500 d. C. Il Talmud, potremmo, forzando un po’ i termini, definirlo una sorta di Nuovo Testamento del Giudaismo. Esso ci fornisce le chiavi di lettura (spesso non univoche, ma volutamente contradditorie e discordanti) per intendere le Scritture, così come noi cristiani le individuiamo a partire dal significato di Gesù. Già, ma cosa significa Gesù per noi, oggi? Ci preoccupiamo di saperlo? Ci mettiamo davvero al suo ascolto? Riusciamo a vedere, nel suo agire, l’agire del Padre e la vocazione a cui siamo chiamati? Tutto l’insegnamento della Scrittura si riassume e si adempie nella sovranità di Dio, manifestata in Gesù come dono di sé in vista della liberazione dal male e della vita di tutti. Sappiamo manifestarla anche nella nostra vita? Ogni “piccolo” gesto che noi compiamo in questa direzione ci rende “grandi” cittadini della realtà nuova del regno. Ogni altra azione che la rinneghi ci fa invece minimi al suo cospetto.  

 

Due sono le memorie di oggi: quella di Efrem di Nisibi, diacono, poeta e innografo, e  quella di José de Anchieta, “il più piccolo della Compagnia di Gesù” (secondo la sua stessa definizione).

 

08_efrem siro.jpgEfrem nacque a Nisibi in Mesopotamia (oggi Nusay-bin in Turchia, al confine con la Siria), verso il 306 e, diciottenne, ricevette il battesimo dal vescovo di quella città,  Giacomo, che divenne sua guida spirituale ed amico. Al pari di altri asceti di quella regione, Efrem rinunciò al matrimonio e scelse di vivere in solitudine, dedicandosi allo studio delle Scritture e alla preghiera, e ponendo la sua vita al servizio della chiesa e dei poveri.  Quando nel 363 la città cadde in mano persiana, Efrem, che nel frattempo era stato ordinato diacono, si stabilì a Edessa, dove gli fu affidata la direzione della cosiddetta “scuola dei persiani”, in cui si insegnava a leggere e a  commentare la Sacra Scrittura. Dall’assidua frequentazione dei testi sacri, trasse, con l’aiuto dell’estro poetico di cui era assai dotato, molte liriche e inni, che si diffusero ben presto in tutto l’Oriente. Nel 372, una grande carestia si abbattè sulla città di  Edessa, e Efrem ricevette l’incarico di organizzare i soccorsi. Morì il 9 giugno dell’anno successivo. Benedetto XV lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1920.

 

09 JOSÉ ANCHIETA.jpgJosé era nato il 19 marzo 1533 a San Cristobal de la Laguna, nell’isola di Tenerife, arcipelago delle Canarie, da dona Mência Dias de Clavijo Llerena (di famiglia ebrea convertita) e da João Lopez de Anchieta, un esule basco che, dopo una ribellione, si era visto commutata la pena di morte in quella dell’esilio, grazie all’intervento di un capitano suo amico, tal Ignazio di Lojola. Di cui in seguito si sarebbe sentito parlare in altra veste.  Ricevuti la prima istruzione nella città natale e mandato, quattordicenne, a Coimbra, in Portogallo, per portare a termine i suoi studi, José maturò lì la sua vocazione religiosa. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1551, fece la sua professione religiosa due anni più tardi e subito dopo fu inviato con altri compagni come  missionario in Brasile. Sbarcati a Bahia l’8 luglio 1553, i missionari si spostarono in direzione dell’altipiano. Giunti nei pressi di un villaggio indigeno, nella regione di Piratininga, costruirono la loro prima casa, “una casupola poverissima e strettissima”, che vollero dedicare a san Paolo, dato che era il 25 gennaio [1554], festa della Conversione dell’Apostolo. Fu da quella baracca che negli anni successivi si sarebbe sviluppata quella che oggi è la megalopoli paulista. Ordinato sacerdote nel 1566, il nostro gesuita, che continuerà a firmarsi sempre e soltanto col nome, per timore forse che si scoprissero le sue ascendenze ebree (erano tempi in cui l’Inquisizione perseguitava gli ebrei convertiti, diffidando della sincerità della loro conversione), si distinse per entusiasmo apostolico e per saggezza, nonché per  capacità di governo, quando, un decennio più tardi, fu chiamato alla guida della Provincia gesuita del Brasile. Di fronte alla brutalità e all’ignoranza crassa dei colonizzatori, seppe prendere le difese degli indios, studiando le possibilità e percorrendo i cammini  di quella acculturazione pacifica che, nei parametri culturali e religiosi dell’epoca, era intesa come unica via alla promozione umana, sociale e morale di quelle popolazioni. Compose in lingua indigena il primo catechismo, dopo averne scritta anche la prima grammatica. Morì il 9 giugno 1597 a Reritiba, chiamata poi Anchieta in suo onore.

 

I testi che la litugia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

1° Libro dei Re, cap.18, 20-39; Salmo 16; Vangelo di Matteo, cap.5, 17-19.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita, nella testimonianza  per la pace, la fraternità e la giustizia.

 

È tutto, per stasera. In una citazione tratta dal suo “Discorsi sulla fede”, Efrem di Nisibi discute di precetti scritturistici superati e altri sempre validi. Che, poi, era anche il problema della comunità di Matteo e, forse, delle comunità di ogni tempo. E ci si deve spremere le meningi  mica male (e, più ancora, forse, affaticare lo spirito), per stabilire quali siano gli uni e quali gli altri. Non dimenticando in ogni caso il riferimento al valore discriminante e ultimativo del significato di Gesù.  Beh, quella citazione, nel congedarci, ve la proponiamo come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Nota quali precetti dovessero servire solo al loro tempo e ad esso fossero adattati, e non lasciarti sconcertare se odi detti scritturistici contrari l’uno all’altro. Per esempio un detto suona così: “Voglio i sacrifici”, un altro: “Odio i sacrifici”. Un detto dice ancora: “Purifica i cibi da ciò che è impuro”, un altro: “Mescolali e mangiali”. Un altro ancora: “Osserva le feste!”, un altro: “Io profano le feste”. Un detto suona: “Santifica il giorno sacro”, un altro: “Io abbomino i sabati”. Un detto dice: “Circoncidi ogni maschio”, e un altro: “Abbomino la circoncisione”. Quando odi ciò, renditi conto, ragionando, della diversità, e non lasciarti sconvolgere come molti che il demonio avvolge fra le sue spire! Senti dunque: i detti scritturistici sono usciti da una sola bocca, diretti però a generazioni diverse. Un detto si rivolge a una generazione, quella generazione svanisce e il precetto con lei; giunge un’altra generazione, ed ecco un altro detto che gli impone una nuova legge. […]. E’ necessario che a tutte le generazioni vengano date le disposizioni corrispondenti, ed ecco perciò a ogni  generazione detti stimolanti alla pietà, rivolti ai suoi figli. Ma in tal modo questi detti si sono moltiplicati e ammucchiati; il cumulo di detti sconvolge gli insipienti, tanto che si staccano dall’unico Iddio. Molti furono i detti dei profeti, miranti a curare le infermità; tutte le medicine possibili furono usate contro la malattia della caducità. Vi sono precetti che perdono l’efficacia quando i mali precedenti non sono più attuali; e ve ne sono altri, invece, che sussistono, perché anche i mali sussistono. Gli apostoli e i profeti sono medici delle anime: essi prescrivono i mezzi corrispondenti alla miseria dell’umanità; preparano le medicine per le malattie caratteristiche della loro generazione. Le loro medicine servono sia dopo che prima, perché vi sono malattie che sono proprie di qualche generazione e vi sono malattie comuni a tutte le generazioni. E contro le malattie nuove, essi prescrissero medicine nuove; per le malattie sussistenti in tutte le generazioni, essi porsero sempre le stesso medicine. (Efrem Siro,  Discorsi sulla fede).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Giugno 2010ultima modifica: 2010-06-09T23:58:00+02:00da fraternidade
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