Giorno per giorno – 30 Maggio 2010

Carissimi,

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future” (Gv 16, 12-13). Il Vangelo della festa odierna della Trinità ci porta nuovamente nel contesto dell’ultima Cena, proponendoci un brano del Discorso d’addio di Gesù. Noi abbiamo meditato questo testo due volte, giovedì scorso, a casa di seu Bernardino, e, ieri pomeriggio, con la comunità di Fé e Luz. William, spesso, quando interviene, è difficile seguirlo nel suo ragionamento, forse perché ha troppe cose da dire tutte insieme. Ieri, però, ha detto solo: quello che mi colpisce nell’atteggiamento di Gesù è il rispetto che ha per i discepoli. Punto e basta. Gesù misura le capacità dei suoi interlocutori e dice loro solo ciò che sono in grado di sopportare. Questa è del resto la pedagogia di Dio, che, lungo i secoli, si rivela poco a poco, assumendo il linguaggio e la cultura di popoli e individui, sondandone gli abiti mentali, valutandone la disponibilità al cambiamento, e scoprendo loro poi, via via, più ampi orizzonti, proponendo nuovi valori, provocando, quando necessario, rotture.  Dunque, Trinità, è per noi, in primo luogo, rispetto dell’alterità e della differenza. Contro ogni nostra pretesa di imporci, di essere noi i maestri d’orchestra, di saperla più lunga, di aver sempre ragione, soprattutto con chi non ha la nostra cultura, le nostre opinioni, la nostra agilità di riflessi, i nostri tempi, la nostra fretta di vedere tutto realizzato e subito, come da copione. Bravo, William!  Poi, Gesù dice che ci penserà lo Spirito di Verità, che è nient’altro che il suo stesso Spirito e Spirito anche del Padre, a guidarci alla verità tutta intera. E non s’inventerà, né aggiungerà nulla a quello che ha sentito e visto in Gesù, in cui una volta per tutte abbiamo potuto contemplare il significato di Dio, cioè la vita come dono. E i discepoli non potevano ancora capirlo appieno, perché non l’avevano ancora visto morire. E noi, che pure lo sappiamo, ce ne dimentichiamo troppo spesso. Ma, appunto, lo Spirito Santo viene a ricordarcelo. La “vita come dono” di Gesù è l’evento della croce. È Dio che assume il male del mondo per liberarcene. Noi invece tendiamo il più delle volte a fuggirle, le croci, affibbiandole agli altri. A grande scala, possiamo dire che la croce è quella che l’Occidente cristiano (ahinoi!) ha posto sulle spalle del Sud del mondo. Il che ci sembra configuri, tra l’altro, una politica antitrinitaria. Come vivere, allora, la Trinità, oggi, nelle nostre relazioni familiari, così come nella nostra vita sociale e religiosa, e nelle nostre scelte politiche ed economiche? Come, concretamente, essere dono per l’altro, nel rispetto per la sua individualità, in vista della sua crescita e della conquista della sua libertà e autonomia?  O, in altre parole, come fare della croce lo strumento della redenzione degli altri e della propria risurrezione?  Tutto questo, evidentemente, “deve” incidere sul nostro stile di vita, se no è solo ipocrisia e/o retorica buonista (per usare un terribile neologismo che abbiamo sempre scansato, ma che qui, solo qui, ci pare vada bene).

 

I testi che la liturgia di questa Domenica della Santissima Trinità propone alla nostra riflessione sono tratte da:

Libro dei Proverbi, cap.8, 22-31; Salmo 8; Lettera ai Romani, cap.5, 1-5; Vangelo di Giovanni, cap.16, 12-15.

 

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Comunità e Chiese cristiane.

 

Oggi è memoria di Emmelia e Basilio, coniugi e genitori secondo il cuore di Dio, e di Girolamo di Praga, riformatore della Chiesa e martire. 

 

30 SaintEmmelia.jpgEmmelia e Basilio erano una coppia della Cappadocia (nell’attuale Turchia). Durante la persecuzione, iniziata con Diocleziano e proseguita sotto l’imperatore d’Oriente, Galerio Massimino,  (305-311), la più dura che il cristianesimo si trovò ad affrontare, per mantenersi fedeli al Vangelo del Regno, dovettero lasciar la loro terra, provando la durezza dell’esilio, la solitudine e le molte difficoltà legate a questa condizione. Esempio di dedizione reciproca, di coerenza e fedeltà, diedero vita a dieci figli, tra i quali san Basilio il Grande, san Gregorio di Nissa, san Pietro di Sebaste, santa Macrina (chiamata con questo nome in omaggio alla nonna, anch’essa santa), ai quali, morendo (verso l’anno 370), lasciarono in eredità la ricchezza della loro testimonianza di fede.

 

30 GEROLAMO DI PRAGA.gifGirolamo nacque a Praga verso il 1370. Compì i suoi studi universitari nella cittá natale, dove subì l’influenza del riformatore Jan Hus. Recatosi, nel 1398 a Oxford, in Inghilterra, rimase colpito dagli insegnamenti di John Wicliffe e se ne fece sostenitore. Insegnò in molte città, nelle università di Parigi, Colonia, Heidelberg, Vienna, Cracovia, ma da tutte fu allontanato per i sospetti di eresia che pesavano su di lui, e, più ancora, per il suo zelo nel denunciare la corruzione dilagante nella Chiesa. Nel 1412, organizzò assieme a Hus una protesta contro la decisione dell’antipapa Giovanni XXIII di finanziare la guerra attraverso la vendita delle indulgenze. Hus e i suoi seguaci furono raggiunti dalla scomunica dell’antipapa. Nel 1415, Girolamo si recò al Concilio di Costanza per difendere Hus, dalle accuse di eresia, mosse contro di lui dai teologi Pietro d’Ailly e Jean Gerson. Difensore della chiesa invisibile  dei credenti, che costituisce, assai più di quella istituzionale, il vero Corpo mistico di Cristo, critico feroce del lusso delle gerarchie e delle ingiustizie sociali, fautore delle teorie di Wyclif sulla paritá tra clero e laicato, e assertore della necessità di predicare nelle lingue nazionali, Hus fu condannato al rogo. Gerolamo, allora, si decise a fuggire. Giunto però in Baviera, fu riconosciuto, arrestato e inviato nuovamente a Costanza. Processato, in un primo momento ritrattò le tesi che aveva condiviso con l’amico e maestro, ma, quando, il 16 Maggio 1416, fu portato nuovamente davanti al giudice, dichiarò di averlo fatto solo per paura della morte. Il processo si concluse con la sua condanna a morte e Girolamo fu bruciato sul rogo il 30 Maggio 1416.

 

Si è detto della Trinità come del Dono e della sua circolarità, garantita dallo Spirito, che non sta mai quieto. E ci piace pensare al Padre che lascia che il Figlio se ne vada di casa, al momento giusto, e gli dà fiducia e responsabilità,  pur sapendo quanto l’avventura sulla terra sia difficile; e al Figlio che, a sua volta, coinvolge i discepoli e, senza legarli a sé, li istruisce, li educa e poi, gli dice: adesso potete andare anche da soli, io me ne vado. Torno da mio Padre, chissà, fino alla prossima volta. E loro, che cominciavano a prenderci gusto per la sua compagnia, è logico ci restino con un palmo di naso, ma poi capiscono e vanno avanti per la loro (anzi per la sua) strada, cadendo, incespicando, perdendosi, ma poi arriva lo Spirito che sistema ogni cosa. E così da duemila anni, anzi, calcolando da prima, anche di più, perché lo Spirito è attivo fin dagli albori dell’umanità.  Questo è il dono di cui dovremmo essere capaci anche noi. Noi abbiamo trovato una gustosa rappresentazione sua, e del suo contrario, in una pagina di Clive Staples Lewis, tratta dal suo  I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità” (Jaca Book), che vi proponiamo, nel congedarci, come  nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

L’affetto materno è un “amore dono”, ma tale da avere bisogno di dare; perciò ha bisogno di rendersi necessario, mentre lo scopo proprio di un dono dovrebbe essere quello di porre chi lo riceve nella condizione di non avere più bisogno del nostro dono. Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’ “amore dono”: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: “Non hanno più bisogno di me” dovrebbe anche essere il momento della nostra ricompensa. Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare a tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente; ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un “amore dono” e, come tale, “altruista”. (Clive Staples Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 30 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-30T23:44:00+02:00da fraternidade
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