Giorno per giorno – 13 Maggio 2010

Carissimi,

“In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16, 20). Sì, certo, Gesù si rivolgeva ai discepoli nell’imminenza del suo arresto, e quindi parlava dell’esperienza che essi avrebbero avuto di lì a poco, di vederlo morto e poi risorto. Ma, nello stesso tempo, non parlava solo di questo né si dirigeva soltanto ad essi. Leggendo questo testo, oggi pomeriggio, se se sono accorti anche i ragazzi della chácara di recupero. Tanto che Mauro ci fa: qui si parla di noi. Anche se non sapeva dire bene in che senso. E Wanderson ha voluto leggere il brano che avremmo dovuto ascoltare nella liturgia di domani, se non fosse per la memoria dell’apostolo Mattia: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16, 21-23).  Gesù si riferisce all’esperienza, che anche noi facciamo, della sua assenza. È quando ciò che Lui è e significa sparisce dalla scena del mondo, quello grande o anche solo quello piccolo piccolo di casa nostra o della nostra persona. Quando il principio della dedizione e della cura o dell’amore fraterno, che dovrebbe reggere la storia e le nostre storie, all’improvviso non c’è più. E noi ci sentiamo abbandonati, chissà, per una malattia nostra o di un nostro caro, per la perdita di una persona amata, per la solitudine in cui ci sentiamo piombati, o per l’incomunicabilità che improvvisamente ci imprigiona o il nonsenso che ci invade e ci priva di ogni orizzonte, o per l’incapacità di resistere a un vizio che ci degrada e lentamente ci uccide; oppure è la società e il mondo che vediamo alla deriva. Già, questa è l’assenza di Gesù che ci fa tristi. Fa tristi noi, dice Erneide, ma intanto c’è chi comunque fa festa, indifferente a quanto gli accade intorno. Maltone cita quel passo di Vangelo sul digiuno in cui Gesù dice: “Verranno i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno” (Lc 5, 35), che esprime la stessa idea di tristezza per l’assentarsi di Gesù dalla nostra vita. E tuttavia. E tuttavia la nostra tristezza può trasformarsi in gioia. Non nell’ultimo giorno, ma già qui ed ora. È quando si fa l’esperienza  dell’incontro con il Crocifisso risorto, l’esperienza della fede nel Crocifisso risorto. Che porta con sé la possibilità concreta di far scendere i crocifissi dalle loro croci, unendo le nostre forze, sotto l’impulso e l’azione dello Spirito. E che in tal modo getta nuova luce su tutto il nostro vissuto e ci consegna ad una gioia di cui nessuno sarà più in grado di privarci.

 

Oggi il nostro calendario ci porta le memoria di Bede Griffiths, monaco-sannyasi, e di René Voillaume, piccolo fratello di Gesù.

 

13 BEDE GRIFFITHS.jpgAlan Richard Griffiths era nato, ultimo di tre figli,  il 17 dicembre 1906 a Walton-on-Thames, in Inghilterra, da una famiglia un tempo benestante, ma ora impoverita. Giunta l’età degli studi,  il giovane ottenne tuttavia una borsa di studio, che gli consentirà di studiare fino al conseguimento della laurea in giornalismo, a Oxford. Dopo la laurea, per circa un anno, il giovane Griffiths visse con due amici un’esperienza di vita semplice ed essenziale, a contatto con la natura, alimentata dalla lettura della Bibbia e di altri testi di letteratura cristiana.  Dopo una visita all’abbazia benedettina di Prinknash, chiese di ricevere il battesimo – che gli fu somministrato la vigilia del  Natale 1931 e, l’anno successivo entrò in monastero, assumendo il nome di Bede. Nel 1937 pronunciò i suoi voti perpetui e nel 1940 fu ordinato sacerdote. Per circa quindici anni se ne stette relativamente tranquillo, scandendo la sua vita, come vuole la Regola, tra preghiera, studio e lavoro. Nel 1955, la svolta, con la richiesta di trasferirsi in India, “alla scoperta dell’altra metà dell’anima”.  Assieme a Benedict Alapott, un prete indiano nato in Europa, si stabilì per tre anni a Kengeri, nel Bangalore, poi nel 1958, raggiunse p. Francis Acharya, nel Kerala, collaborando alla fondazione dell’ Ashram Kurisumala, un monastero di rito siriaco, dove assunse il nome di Dhayananda (Beatitudine della preghiera). Nel 1968, infine,  si trasferì, con altri due monaci indiani, Swami Amaldas e Swami Christodas, all’Ashram Saccidananda, a Shantivanam, nello stato del Tamilnadu, vicino a Tiruchirappalli. L’ashram, fondato nel 1950 da Jules Monchanin e Henry Le Saux, era stato il primo tentativo di fondare in India una comunità cristiana che seguisse i costumi di un ashram e s’adattasse, nel modo di vivere e di pensare, allo stile indù. Bede Griffiths, che adesso prese a chiamarsi Dayananda (Beatitudine della Compassione), si conformò in tutto al costume vedico, vestendo la veste arancione del sannyasi e vivendo in assoluta povertà, fino alla morte, che lo colse, uomo dal cuore universale, il 13 maggio 1993.

 

13 Voillaume.jpgRené Voillaume era nato a Versailles il 19 luglio 1905. Ordinato prete nel 1929, aveva proseguito gli studi all’Angelicum di Roma e si era poi specializzato in lingua araba e islamistica a Tunisi. L’8 settembre 1933, nella basilica parigina del Sacro Cuore a Montmartre, insieme a Guy Champenois, Marcel Boucher, Georges Gorrée e Marc Gerin, Voillaume dava inizio alla famiglia dei Piccoli fratelli di Gesù. Decisero di stabilirsi insieme a El-Abiodh, nell’Algeria del Sud, seguendo le impronte di Charles de Foucauld, l’eremita solitario che a lungo sognò, senza riuscirvi, di fondare una congregazione che avesse come ideale la vita nascosta di Gesù a Nazareth. Nel 1939, dall’incontro di Voillaume con Magdeleine Hutin, avvenuto l’anno prima, sarebbe nata la congegazione delle Piccole sorelle di Gesù. Altre famiglie sarebbero in seguito sorte, alimentate dall’intuizione spirituale di fratel Charles e dalla traduzione che Voillaume seppe farne nel cuore del nostro tempo.  Quando, prima di morire Voillaume diede spazio ai ricordi autobiografici, volle sottolineare l’importanza che, nella sua vicenda spirituale, ebbero il Santissimo Sacramento e Nazareth. Quest’ultima letta nei suoi due significati di vita di silenzio, preghiera, lavoro e povertà, e quello di inserimento in un ambiente povero, in cui, fuori da ogni troppo facile retorica, si condivide la vita e il lavoro di tutti. Il 13 maggio 2003, alle soglie dei 98 anni padre Voillaume moriva a Aix-en-Provence, assistito dai rappresentanti delle varie famiglie spirituali nate dai suoi scritti e dalla sua vita.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.18, 1-8; Salmo 98; Vangelo di Giovanni, cap.16, 16-20.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

È tutto per stasera. Noi ci congediamo qui, lasciandovi ad una citazione di René Voillaume, tratta dal suo libro “Pregare per vivere” (Cittadella Editrice), che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Anche nell’atto dell’orazione è utile ricordarci delle forti parole di san Paolo: “Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli e non avessi l’amore, non sarei che un bronzo risonante o un cembalo squillante; e se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e se avessi tutta la fede così da trasportare le montagne, e poi mancassi di amore, non sarei nulla” (1 Cor 13, 1-2). Troppo spesso, le nostre preghiere non sono che esercizi senza vita! Come stupirsi, poi, che vi sia una frattura tra la vita e una tale forma di preghiera? Una preghiera è vivente quando è un atto vitale di ciò che è vivo in noi: la fede è l’amore. Bisogna anche che la preghiera sia vera perché sia un incontro tra noi – così come siamo, con le nostre fatiche, le nostre miserie, i nostri peccati, le nostre tentazioni – e il Cristo che è là tra Dio e noi. Si noterà che sottolineo soprattutto lo sforzo, quasi sempre oscuro e arido, di una fede alla ricerca di Dio, senza menzionare l’azione più o meno permanente dei doni dello Spirito Santo. In effetti, solo la fede esige da noi questo sforzo attivo, mentre non possiamo che subire l’azione dello Spirito Santo che viene, da se stesso, a concludere il nostro sforzo, spesso, così miserabile nei suoi risultati. Con la stessa purezza di intenzione e nello stesso movimento di amore andremo dunque alla preghiera, al lavoro e al servizio degli uomini. Allora ci sarà unità in tutta la nostra vita. Resterà in noi, nell’intimo dell’anima nostra, un perpetuo desiderio di amare e di testimoniare questo amore, e sarà ora pregando in silenzio, ora lavorando, ora conversando. Ciò suppone, come acquisita, una certa padronanza di sé in una spogliazione reale di ogni nostro desiderio. Solo a questa condizione potremo dominare l’insieme delle nostre attività di preghiera o di lavoro per farne l’espressione multipla di un unico moto d’amore.  (René Voillaume, Pregare per vivere).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro

Giorno per giorno – 13 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-13T23:15:00+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo