Giorno per giorno – 12 Maggio 2010

Carissimi,

“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16, 13-14). Da qualche giorno, fa parecchio freddo la mattina, e questo può spiegare perché ogni tanto qualcuno manchi all’appello (che, per altro, non c’è). Così, se a volte capita che si sia anche in dodici o tredici, altre volte si è meno. Oggi, per esempio, solo otto. Ma, va bene così. Gesù, nel discorso che rivolge ai suoi in questi giorni, preannuncia l’invio del suo Spirito, che completerà la formazione che Lui ha solo avviato. Noi siamo solo apprendisti alle prime armi, ci dicevamo stamattina, noi cristiani di base, ma anche i nostri preti e vescovi e persino più su. Perché la vita cristiana non è, in primo luogo, “sapere” molte cose, che, per carità, hanno la loro utilità, ma vivere e incarnare il suo messaggio, il suo progetto, la sua stessa persona. Che è ciò che noi chiamiamo la verità. Lo Spirito è allora l’aiuto, il suggeritore, che ci permette di indovinare come applicare quella verità, data una volta per tutte, alla nostra vita, a quella della nostra famiglia, della nostra comunità, del nostro paese, della chiesa. A noi, per esempio, è parso molto bello e soprattutto vero e opportuno ciò che ha detto  il papa sull’aereo diretto a Lisbona. Quasi che allontanandosi dallo spazio e dagli ambienti  in cui si trova normalmente confinato e potendo spaziare su orizzonti inusuali, gli sia stato più facile ascoltare e dar voce ai suggerimenti e, chissà, ai gemiti, dello Spirito. Il quale, preannunciava Gesù, “dirà tutto ciò che avrà udito”, non da più o meno interessati cortigiani, ma dallo stesso Cristo e, perciò, anche dalle vittime del peccato del mondo e della Chiesa, vittime che l’evento di Gesù riassume e  impersona. Il papa, rivolgendosi forse soprattutto a coloro che, fino a poche ore prima del suo pronunciamento, riducevano lo scandalo-pedofilia nelle istituzioni religiose a polverone mediatico, o a cospirazione anticlericale, o a chiacchiericcio, lui comincia col definirlo realtà “terrificante” e a ricordare poi  che, oggi più che mai, “le più grandi persecuzioni della Chiesa non vengono dai nemici esterni, ma nascono dal peccato nella Chiesa”. Per cui, essa “ha un profondo bisogno di reimparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia, perché il perdono non sostituisce la giustizia”. Forse queste parole avranno almeno l’effetto di frenare certo facile vittimismo, quale espressione di un trionfalismo frustrato delle istituzioni, ma sarebbe, invece, desiderabile, assumerle come segnale di una nuova visione della realtà e di una nuova esigenza nel nostro cammino di chiesa, che faccia sua la prospettiva e l’invocazione di giustizia, di tutte le vittime, non solo di quelle dei più recenti scandali. E parliamo dei Continenti della fame e della miseria e delle schegge di Sud del Mondo presenti nel mondo dell’opulenza, così come delle vittime di ogni tipo di sfruttamento, di intolleranza, di esclusione. Perché il perdono che ci si augura da essi, si coniughi ad una nuova e più alta giustizia.

 

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Rabbi Meir  e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele.

 

12 RABBI MEIR.jpgDiscepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo,  Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché  illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro.  Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”.  Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la  figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò  e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore, verso il 175 d.C. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.17, 15.22 -18, 1; Salmo 148; Vangelo di Giovanni, cap.16, 12-15.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita nella testimonianza  per la pace, la fraternità e la giustizia.

 

Sapiente per davvero non è chi insegna a tutti, ma chi da tutti impara: è la lezione di Ben Zoma in Pirqé Avot (I Detti dei Padri). Noi ci si congeda qui, lasciandovi al commento del Rabbino Shlomo Riskin, dedicato alla Parashà settimanale dal titolo Balak (Nm 22, 2- 25,9). Che oltre a menzionare Rabbi Meir, ci pare presenti una qualche assonanza con la riflessione che siamo venuti svolgendo sul Vangelo di oggi. E che, in ogni caso, è il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Nel suo Commento alla Torah, il Pri Tzadik cita il racconto di un maestro chassidico, Rabbi Sussja che, durante uno dei suoi viaggi, giunse presso un contadino il cui carro si era ribaltato. Alla sua richiesta di aiuto, rabbi Sussja, che non era più giovane e si sentiva troppo debole per far fronte a un carro di quel peso, obiettò dicendo: “Mi spiace, non posso aiutarti”. “Tu puoi”, disse il contadino a Rabbi Sussja, “tu puoi di certo, solo che non vuoi”. Le parole del contadino penetrarono nell’intimo di Rabbi Sussja, echeggiandovi come un messaggio dall’Alto, come se la stessa Shechina lo stesse ammonendo per aver detto “Non posso”.  “Tu puoi”, sentì dire alla Shechina,  “solo che non vuoi”. Rabbi Sussja seppe allora accettare la verità delle parole del contadino. Quante volte anche noi diciamo “non possiamo”, quando in realtà ciò che intendiamo è “non vogliamo”. Ed ecco che, con solo questa parola, il nostro Tempio è distrutto, la Divina Presenza è caduta e noi non riusciamo a risollevarla. E nonostante diciamo che è perché non possiamo, la vera ragione è che noi non vogliamo. Qui sta l’essenza dell’insegnamento che troviamo nel trattato di Avot: “Ben Zoma dice, chi è sapiente? Chi impara da tutti…” (PA IV, 1) . Se Rabbi Sussja può imparare un principio maggiore riguardo alla nostra relazione con Dio dalle semplici parole di un contadino pagano, noi dobbiamo sempre stare all’erta, pronti a ricevere da chiunque un messaggio divino diretto a noi!  Il Pri Zadik ci ricorda il dilemma del Talmud concernente Rabbi Meir che continuò a ricevere l’insegnamento della Torah da un Rabbi che aveva apostatato, Elisha be Avuyah (conosciuto come l’Akher, ossia l’Altro). Dopo tutto, non insegna forse il profeta Malachia: “Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è il messaggero del Signore degli eserciti” (Mk 2, 7), il che, secondo l’interpretazione dei nostri Saggi, significa che solo nel caso in cui il Sapiente della Torah sia paragonabile a un angelo celeste, noi possiamo apprendere da lui?  Se è così, come può Rabbi Maeir continuare a studiare da un apostata?  La risposta del Talmud è che un individuo davvero grande ha la capacità e la sensibilità di ascoltare la parola di Dio persino dai luoghi più bassi (T.B., Hagiga 15 b). Quindi, Rabbi Meir la udì da Akher, Rabbi Sussja da un contadino pagano,  e Baaam la udì addirittura dalla sua asina. Nella sua “Guida ai Perplessi”, Maimonide sottolinea che sul Monte Sinai ogni ebreo udì il suono divino, ma ogni persona udì soltanto ciò che era in grado di udire, a seconda del suo livello spirituale e della sua sensibilità umana. Le onde divine continuano a propagarsi dal Sinai e sono sempre pronte a consegnarci la parola divina – persino attraverso il messaggero più disdicevole. La domanda è: siamo pronti a riceverla?  (Shlomo Riskin, Weekly Torah Portion, Balak).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-12T23:50:00+02:00da fraternidade
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