Giorno per giorno – 07 Maggio 2010

Carissimi,

“Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 14-15).  Ciò che ci comanda e che rivela che davvero noi siamo suoi amici, è che ci si ami reciprocamente “come” Lui ci ha amato, fino al dono della vita. Anche Paolo, nella lettera agli Efesini scrive: “Camminate nell’amore, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi” (Ef 5, 2). Se non si fa questo, di “cristiani” abbiamo solo l’etichetta. Stamattina ci dicevamo la bellezza anche di quel “non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato amici”: qui c’è l’abolizione di ogni gerarchia, persino quella, minima, che esiste tra frateli, dove c’è pur sempre l’autorità del fratello maggiore su quelli che vengono dopo di lui. Allora è come ci dicesse: beh, dimenticatevi che sono figlio di Dio (dato che noi siamo abituati a pensare Dio sempre “sopra”): io sono semplicemente il vostro amico. Facciamo, allora, a gara a chi ama di più. Che vuol dire: a chi diminuisce di più, a chi [si] perde di più. Chiaro che poi a vincere, nel perdere, è sempre Lui! Ma noi, alla sua scuola, si può cercare di fare qualche progresso. Il bello di tutto questo è che, dentro questo comandamento dato ai discepoli, dato alla chiesa, c’è  “in nuce” un progetto di società e di civiltà diversa. La chiesa, società di eguali, di amici, sempre che voglia testimoniare davvero Gesù, si propone allora come modello di una società altra, senza servi e padroni, ricchi e poveri, oppressi e oppressori, dove tutti sono semplicemente amici. Beh, ovviamente non sarà facile che il “sistema” accetti, accolga o anche solo tolleri questa proposta (la cui concreta applicazione storica bisognerà ogni volta inventare), dato che essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza. Farà, così, il possibile per convertire i discepoli di Gesù, la chiesa, alla sua propria logica e alla sua scala di valori, per poter continuare a dormire i suoi sonni tranquillo. Come difatti.

 

Oggi il martirologio latinoamericano fa memoria di Elvira Hernández e Idalia López, catechiste e martiri in El Salvador.

 

05 MARTIRES.jpgElvira e Idalia erano due ragazze della stessa età che abitavano in un quartiere della periferia povera di San Salvador, chiamato La Fosa. Entrambe facevano parte della locale comunità cristiana. Elvira, dopo aver fatto la prima comunione, si inserì in un gruppo di adolescenti fortemente motivati e interessati ai problemi della realtà sociale. A 13 anni fece il suo primo discorso in pubblico sul tema: “Alla scoperta dell’ideale cristiano”. Più tardi, entrò in un’organizzazione che operava tra gli abitanti delle zone maggiormente emarginate, come maniera concreta di promuovere solidarietà. Un giorno, mentre si stava preparando per una celebrazione, venne raggiunta da una raffica di mitra partita da un veicolo in corsa e cadde morta, assieme ad un  altro compagno della comunità. Era il 18 aprile 1980. Aveva 14 anni.  Idalia López, era nata in una famiglia molto povera. Prendendo parte alla vita della comunità aveva imparato che il Vangelo non è solo Parola, ma è anche Vita. A tredici anni, nel giorno della sua prima comunione, si impegnò pubblicamente a lavorare in favore della sua gente. Quando nella comunità maturò l’idea di costruire un centro di salute, Idalia decise di fare un corso di pronto soccorso per lavorarvi come infermiera. A quindici anni si integrò in un gruppo giovanile della parrocchia di San Francisco Mejicanos. Nello stesso tempo si preparò per diventare catechista. Gli amici dicono che Idalia si distingueva per la profondità della sua riflessione, oltre che per la sua dedizione e la sua solidarietà con i più poveri. Uscendo da una riunione, il 7 maggio 1984, Idalia fu aggredita dai componenti di una ronda della difesa civile, che la ferirono ad una gamba. Quando già era a terra, furono su di lei e le spararono un colpo di grazia al volto.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.15, 22-31; Salmo 57; Vangelo di Giovanni, cap.15, 12-17.


La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

 

Benedetto XVI, nella sua visita al Cottolengo di Torino, ha richiamato, facendole sue, le parole del suo fondatore: “I poveri sono Gesù, non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli. Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme. Se non li trattiamo bene, ci cacciano dalla Piccola Casa. Essi sono Gesù”. Sono parole che, per chi non conosce il Vangelo, come molti cristiani non lo conoscono, possono suonare forti, ma esprimono nondimeno la sostanza del suo messaggio. Ora, noi siamo chiamati a trarne tutte le conseguenze, diversamente, sarebbe solo un esercizio in più di vuota retorica. Siamo davvero disposti a metterci in ascolto del magistero dei poveri, a lasciarci evangelizzare, accogliere, perdonare, riconciliare con Dio, cioè anche redimere e salvare da essi? O continueremo a ignorarli, o, nel migliore dei casi, a pensare che siamo noi, paternalisticamente, a doverli evangelizzare e salvare? Noi ci congediamo qui, lasciandovi a una citazione del teologo salvadoregno Jon Sobrino, tratta dal suo libro El principio misericordia (UCA Editores). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

I poveri sono la mediazione storica del perdono-accoglienza di Dio. E se è vero che è il perdono a rendere possibile il riconoscimento del proprio peccato e ad ottenere la forza per una pratica contraria al peccato, significa che anche oggi c’è la possibilità di riconoscere il peccato del mondo e di decidersi a sradicarlo. […] Con la scoperta del peccato della Chiesa in quanto tale, nel prendere, cioè, sul serio che la Chiesa è strutturalmente santa e strutturalmente peccatrice (la casta meretrix)  – come mostra Rahner in base al Vaticano II -, sorge la domanda su cosa fare con questo peccato strutturale della Chiesa, dato che per esaminarsi e pentirsi di esso, soddisfarlo e esserne assolti non basta il sacramento della penitenza. […] Puebla dice molto bene che i poveri evangelizzano la Chiesa in quanto la interpellano chiamandola a conversione e in quanto le offrono la realizzazione di importanti valori evangelici. Ora, qui noi proponiamo di compiere un passo ulteriore, considerando i poveri come perdonatori, come coloro che proclamano il vangelo del perdono-accoglienza. Questo passo è cruciale e per nulla facile. Se non lo si dà, se non si guarda ai poveri come perdonatori, tanto meno li si guarderà come gli offesi, e la Chiesa continuerà a nascondere a se stessa il suo proprio peccato. Il passo è difficile, poiché suppone di superare la hybris della Chiesa, hybris tanto reale quanto quella di altri gruppi sociali e quanto quella dell’individuo; e hybris che le renderà impossibile di porsi davanti a Dio come egli è realmente: accoglitore e perdonatore. Da un punto di vista storico, sopravviverà il trionfalismo ecclesiale, secondo il quale nessuno ha nulla da insegnare di realmente serio e nessuno deve perdonare alla Chiesa nulla di realmente grave. Se la Chiesa, però, si lascia perdonare dai suoi offesi, saprà riconoscersi così come essa è – anche nella sua dimensione peccaminosa -; sarà capace di quel “decentrarsi” radicale in direzione dell’altro, il povero; sarà capace di porsi davanti al vero Dio, esigente e misericordioso, lasciandolo essere Dio e senza che la sua hybris le detti in anticipo come deve manifestarsi; e sarà capace di vivere, nella dura realtà, la gioia di sapersi accolta e di vivere in comunione con Dio e con i poveri di questo mondo.  (Jon Sobrino, El principio misericordia).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.     

Giorno per giorno – 07 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-07T23:01:00+02:00da fraternidade
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