Giorno per giorno – 27 Aprile 2010

Carissimi,

“Le autorità dei Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente. Gesù rispose loro: Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore” (Gv 10, 24-26). In parte, il Vangelo di oggi, lo si era già ascoltato domenica. Oggi, in aggiunta, c’è l’ambientazione del discorso: il portico di Salomone, nel recinto del Tempio, durante la festa invernale di Hanukkah, il 25 di kislev, che celebrava la riconsacrazione del Santuario, avvenuta nel 165 a.C., dopo la sua profanazione durata tre anni ad opera di Antioco IV Epifane.  Stasera, noi eravamo per la prima volta a casa di Rosaria e Milton, una coppia giovanissima, che ha preso da poco a frequentare la Comunità dell’Aeroporto, e quando è cominciato il giro degli interventi, seu Francisco ha detto che non riusciva proprio a raccapezzarsi del rifiuto a credere opposto a Gesù dalle autorità dei giudei. Eppure una qualche giustificazione, a volerla cercare, ce l’avevano. La figura del messia vittorioso, di cui parlavano molte profezie, non si addiceva proprio a Gesù. Anzi, Gesù insisteva nell’applicare a sé profezie, diciamo così, “politicamente scorrette”, che non facevano il gioco né di chi era al potere, né di chi voleva arrivarci. Lui proponeva una logica nuova nelle relazioni umane, quella della cura fraterna, denunciando la volontà di potere, l’ansia di dominio, come l’origine di ogni male. E i segni che veniva compiendo erano tutti espressione di quella verità. Ma, allora, come anche adesso, non c’era peggior sordo di chi non vuol sentire. Gesù, del resto, non era granché interessato ad essere insediato come re messia, con tutti i crismi dell’ufficialità. Aveva una pretesa nello stesso tempo umile e infinita. Del tipo: amici miei, io sono niente, figuratevi un po’, cosa mai viene di buono dalla Galilea, ancora peggio, da un villaggio come Nazareth? Eppure è guardando questo niente di buono che voi potete capire come agisce Dio. E, perciò, anche a cosa vi convoca Dio.  Ma certo, se noi arriviamo lì con i nostri schemini prefabbricati di quello che deve essere Dio, siamo fritti, non lo capiremo mai. Se però, per un attimo, sgombriamo di ogni cosa il cuore, la mente, le orecchie e gli occhi, siamo perduti: Lui ci ha già rapiti. E allora il Padre può mettere nelle nostre mani tutto, come aveva già fatto con Lui, perché sa che ne avremo cura e non ce lo lasceremo strappare da nessuno, a costo della vita. Tu, povero, emarginato, escluso, dannato, maledetto, tu nel palmo delle mie mani, come fosse il palmo delle Sue. Sembra persino una bestemmia, ma è questo che significa avere Gesù come messia. Se no, è idolatria. O superstizione.

 

Oggi il calendario ci porta le memoria di Mechitar, monaco e testimone di dialogo, e di Rodolfo Escamilla, presbitero e martire per la giustizia in Messico.

 

27 MECHITAR.jpgPietro Manuk (questo il suo nome di battesimo) era nato a Sebaste, in Armenia, il 7 febbraio 1676. Nel 1691 era entrato nel monastero di Surp Nshan, assumendo il nome di Mechitar (= Consolatore). Fu ordinato sacerdote, a soli venti anni, in un’epoca in cui l’Armenia era attraversata da divisioni e controversie religiose, retaggio del millennio precedente. Crebbe allora in lui l’idea di dar vita a un centro monastico, i cui membri, radicati nella preghiera e nello studio delle Scritture e della tradizione, si disponessero a vivere i valori del dialogo e della mansuetudine evangelica. Il suo sogno si concretizzò in pochi anni, tanto che nel 1700 fondò la Congregazione che, alla sua morte, sarà chiamata Mechitarista. L’ostilità del patriarcato al dialogo con Roma, costrinse presto Mechitar a trasferirsi con i suoi compagni a Modone, sotto dominio veneziano, dove edificò un monastero. Nel 1705 presentò un’istanza al papa Clemente XI, volta ad ottenere il riconoscimento della nuova famiglia religiosa come Ordine monastico armeno riformato di S. Antonio Abate. Nel 1715, l’avanzata ottomana nella Morea, spinse i monaci a trasferirsi a Venezia, dove, due anni più tardi, fu assegnata loro l’isola di San Lazzaro. Lì cominciarono subito a lavorare alacremente alla ristrutturazione della chiesa e degli altri edifici esistenti, dedicandosi nel contempo alla traduzione, redazione e pubblicazione di testi spirituali. Mechitar morì il 27 aprile 1749 e fu sepolto nel presbiterio di San Lazzaro.

 

27 Rodolfo Escamilla..jpgPrete messicano, Rodolfo Escamilla, era nato nel 1920. Semplice, di carattere allegro ed estroverso, era, secondo le parole del Martirologio Latinoamericano, “un pellegrino della geografia del suo paese, che percorreva in lungo e in largo, alla ricerca di fratelli oppressi, silenziati, miserabili, per far sì che prendessero coscienza dei loro diritti”.  Nel 1947, a Tialpujahua, nel Michoacán, organizzò i minatori perché continuassero a sfruttare in proprio la miniera chiusa dalla Compagnia. Nel 1952 fondò la Gioventù Operaia Cattolica (JOC) che si diffuse presto in tutto il paese e da cui nacque in seguito la Gioventù Agraria Cristiana (JAC), con la stessa mistica e la stessa metodologia. Fondò scuole di abilitazione operaia, cooperative di consumo, di produzione e di abitazione e promosse la formazione di sindacati. Ma soprattutto ridestò tante coscienze assopite, tanto tra i suoi compagni presbiteri, come tra i poveri, che servì anche attraverso il suo ministero nella diocesi di Michoacán. Venne assassinato a colpi d’arma da fuoco nell’ufficio del Segretariato Sociale Messicano, di cui era membro da 15 anni.  Durante i suoi funerali, uno dei celebranti si espresse così: “Padre Rodolfo Escamilla, assassinato per la sua dedizione al popolo, risorge ogni volta che il popolo avanza verso la sua liberazione; risorge nel prete che si impegna, nell’operaio che eleva la sua coscienza, nei contadini che si uniscono per rendere più fertile la terra per cui lottarono”.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.11, 19-26; Salmo 87; Vangelo di Giovanni, cap.10, 22-30.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

 

Gesù è figlio di Dio, perché trasparenza del Padre, agisce come Lui, ma lo è anche, e forse di più,  nel processo di identificazione con gli ultimi, gli esclusi, i dannati della terra. Loro sono Lui. Dovremmo pensarci un attimo, prima di metterli troppo frettolosamente alla porta o di battezzare sventatamente la visione del mondo della Lega, mons. Fisichella. Noi ci congediamo qui, lasciandovi ad una citazione del teologo Jon Sobrino, tratta dal suo libro “La fede in Gesù Cristo. Saggio a partire dalle vittime” (Cittadella editrice), che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Nel nostro mondo ci sono quelli che compiono una missione e per questa ragione sono annientati, per cui finiscono come il servo sofferente, indifeso e impotente (e molti martiri oggi esprimono questa totalità del servo). Ci sono però altri che esprimono soltanto il destino finale del servo, senza che una prassi precedente lo provochi: sono semplicemente poveri (molte volte donne, bambini e anziani indifesi) e muoiono come vittime. Nel porci ora la domanda di chi è nel nostro mondo il Figlio amato bisogna tener conto di entrambe le cose, ma ora noi ci concentriamo sul secondo gruppo, le grandi masse, milioni e persino miliardi di esseri umani, che sono ancora dimenticati, in ciò che è sostanziale, da praticamente tutti i poteri di questo mondo e spesso anche dalla teologia. Qui appare la parzialità della paternità e, correlativamente, la parzialità della figliolanza: “Dio è padre degli orfani e delle vedove” (Sal 68, 6) si dice nell’Antico Testamento. In questa stessa tradizione biblica Puebla dirà: “Fatti a immagine e a somiglianza di Dio per essere i suoi figli, questa immagine è oscurata e persino schernita. Per questo Dio prende le loro difese e li ama” (n.1142). La presenza di Dio nel servo sofferente è mistero nel Nuovo Testamento e nel corso della storia. È un mistero che il “rapporto familiare” di Dio si mostri anche nello scherno dell’umanità. La tragedia è che possiamo ignorare e perfino mistificare chi è il servo oggi.  […] In quei poveri appare il volto di Dio, la divinità schernita. Il fatto che possiamo vedere qualcosa di Dio in loro non è programmabile, ma capita. Alcuni sembrano soltanto esprimere il non avere figura umana, il non far tesoro della propria condizione divina, che viene loro con la creazione. Questi poveri, come il figlio amato, rendono Dio presente, silenzioso e nascosto, ma alla fine Dio. (Jon Sobrino, La fede in Gesù Cristo. Saggio a partire dalle vittime).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 27 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-27T23:52:00+02:00da fraternidade
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