Giorno per giorno – 28 Aprile 2010

Carissimi,

“Gesù allora esclamò: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv 12, 44-46). Solo poche righe prima di quanto abbiamo letto oggi, c’era scritto: “Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro” (Gv 12, 36). Ed ecco, improvviso, questo grido, quasi un ripensamento di Gesù. Come di qualcuno che se ne sta andando via e torna per un momento sui suoi passi per ridire ciò che gli sta più a cuore. Che poi Gesù l’abbia davvero detto in quella situazione, o che, più verosimilmente, l’abbia posto lì l’evangelista a mo’ di ricapitolazione del messaggio di Gesù, poco importa. Ciò che può, semmai, chiamare la nostra attenzione è il fatto che Gesù, non semplicemente “esclamò”, come recita la nostra traduzione, ma “gridò”, come suggerisce il testo originario. E Gesù non era mica abituato a gridare. Nel vangelo di Giovanni lo fa solo tre volte, tra cui questa. Significa che attribuisce una speciale importanza a ciò che sta dicendo e vuole che noi ce ne ricordiamo bene. Noi, una volta, avevamo detto, riflettendo sulla figura di Giovanni il Battista, che egli non annuncia se stesso, ma addita Gesù. Il quale, a sua volta, come vediamo oggi,  non predica se stesso, ma rimanda alla verità del Padre. Anche il Padre, a dire il vero, non pone se stesso al centro, ma pone l’uomo, la sua creatura, la cui salvezza, la cui vita in pienezza, costituisce il suo fine ultimo, la sua vera gloria. Sicché si può dire, un po’ paradossalmente, che noi siamo allora la religione di Dio. E la nostra religione è quella di un Dio che si preoccupa dell’uomo. Non quella di un grande narcisone che se ne sta in trono in attesa della nostra adorazione. E questa preoccupazione per la liberazione dell’uomo, Dio ce l’ha impressa nel nostro Dna. Al punto che Gesù può affermare, come fa nel Vangelo di oggi, che Lui non ci condanna mai, neppure quando noi non assolviamo questa nostra vocazione originaria – siamo appunto i suoi figli e figlie, come potrebbe condannarci? – ma c’è chi ci condanna, quando per esempio ci comportiamo come le povere iene (come chiamarle madri?)  di Adro, ed è quella stessa parola di salvezza che Lui ha pronunciato su tutti. Che ci rimorderà dentro, fino alla fine dei tempi, quando, forse, il Perdono pronunciato dalle vittime del nostro livore, del nostro odio, della nostra violenza, ci restituirà alle braccia della Sua misericordia.       

 

Oggi è memoria di Jacques Maritain, filosofo, mistico, piccolo fratello di Gesù.  

 

28 Maritain Jacques.jpgJacques Maritain era nato a Parigi, il 18 novembre 1882, da Geneviève Favre, figlia dello statista francese Jules Favre, e di Paul Maritain, un avvocato di fama. Educato nel protestantesimo liberale, Jacques aveva studiato al Liceo Enrico IV e poi Filosofia e Scienze Naturali alla Sorbona. È qui che il giovane incontrò Raissa Oumançoff, ebrea di origine russa, naturalizzata francese, con cui si sentì subito in sintonia per interessi, ideali e tormenti interiori. Fu una conferenza di Henri Bergson, professore al College de France, che rivelò loro il senso dell’assoluto e li spinse a voler vivere l’avventura della vita. L’incontro, poi, con lo scrittore Leon Bloy  li portò a contatto del cattolicesimo e delle sue storie di santità e di grazia e li indusse, nel 1906, a chiedere il battesimo. Poco dopo, insieme, pur nella scelta irrevocabile della devozione e dell’amore reciproco, promisero di vivere il celibato del regno, facendo voto di castità. Con la sorella di Raissa, Vera, avviarono un sodalizio spirituale, che durerà tutta la vita. Convinti che la contemplazione chiede non di lasciare i chiostri e i conventi, ma di uscire e di espandersi fuori, di scendere nelle strade del mondo, si fecero apostoli  della chiamata universale alla vita mistica, come via alla perfezione della carità. In quegli stessi anni Maritain abbandonò definitivamente la filosofia bergsoniana, identificandosi sempre più nell’opera di Tommaso d’Aquino, che caratterizzerà tutta la sua produzione successiva. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i Maritain si trasferirono negli Stati Uniti, dove Jacques continuò la sua attivita di pubblicista e di professore di filosofia, insegnando, a New York, nelle università di Princeton e della Columbia, e tenendo conferenze in numerose città americane. Dal 1944 al 1948 fu inviato a Roma quale ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. Dal 1948 al 1960 i Maritain si trasferirono nuovamente negli USA. Nel 1960, durante uno dei periodici viaggi in patria, Raissa morì, il 4 novembre,  a Parigi. Tenendo fede ad una promessa che si erano fatta, Maritain scelse di vivere l’ultimo tratto della sua vita in una comunità religiosa, quella dei Piccoli fratelli di Gesù, a Tolosa. Durante il Concilio ecumenico Vaticano II, Paolo VI lo interpellerà spesso sulle questioni più dibattute.  Nel 1970, a ottantotto anni, Maritain cominciò il suo anno di noviziato per entrar a far parte a pieno titolo della famiglia di Charles de Foucauld.  Morì, novantunenne, il 28 aprile 1973.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.12, 24 – 13, 5a; Salmo 67; Vangelo di Giovanni, cap.12, 44-50.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la religione, la cultura o la filosofia di vita.

 

Stamattina lo scrivevamo a don Augusto, ma vogliamo condividerlo anche con voi: “Il 7 aprile di 25 anni fa era Pasqua e Djarí e Maria Conceição (noi la chiamiamo Ném o )  si sono messi insieme. Per quell’incontro, dagli accenni discreti che ce ne ha fatto qualche volta,  è stato ciò che le ha ridato la gioia di vivere. Non sappiamo quale dolore o dramma o tristezza venisse a sanare. Né siamo curiosi di saperlo. Però, appunto, è stato una cosa grande. In seguito si sono sposati civilmente, hanno messo al mondo Eliane, hanno cresciuto per un bel po’ di anni Wanderson, quando Valdecì era in difficoltà, tanto è vero che lui, anche dopo essere da anni ormai tornato a casa, continua a chiamarli papà Djarimamma Né. Hanno cominciato a partecipare alla comunità, e è la più fedele di tutti, anche nel partecipare ogni mattina alla preghiera e alla lettura del Vangelo. Un velo di tristezza le riappare di tanto in tanto nello sguardo, ma oggi riesce a godere e a far trasparire, almeno così ci pare, una serena felicità. Beh, noi era già qualche anno che si parlava di cominciare a far sposare alcune delle coppie della Comunità, come segno di una presa di coscienza del valore di ciò che già vivono da tempo. E, a Pasqua, è stata , che, assieme a Eliane, ci dice a sorpresa: allora, che ne dite se io e Djarí ci sposassimo? E così, si è deciso. Ora, anche dom Eugenio ha dato la sua disponibilità a benedire le nozze. Che saranno sabato prossimo, alle 19:30,  nella chiesetta dell’Aparecida, con la festa poi nei locali del Centro Comunitario. E sarà in grande stile. Con le fedi nuove, l’abito da sposa e quello da sposo affittati, i fiori di carta dorati confezionati dalla stessa Eliane, aiutata da Nesona. Insomma, una cosa per la quale neppure noi dalla scorza dura siamo sicuri di poter evitare alla fine di commuoverci di brutto. Beh, te le volevamo comunicare. Anche perché tu possa essere presente con noi e i tuoi amici e amiche pure. Noi si vuole molto bene a e a Djarí. E loro meritano questo e anche molto di più”.  Beh, questo invito a da oggi esteso a tutti voi. Sabato sera vi vogliamo tutti qui. Ricordatevi le cinque ore del fuso orario.

 

E dato che si parla di nozze, lasciate che ci congediamo con un testo sul matrimonio, scritto da Jacques Maritain. Che almeno in qualcosa rispecchia la storia dei nostri colombini. È tratto dal suo libro “Riflessioni sull’America” (Morcelliana), ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

La verità è questa, secondo me: anzitutto l’amore come desiderio o passione, e l’amore romantico — o quanto meno un elemento di esso — dovrebbero, per quanto possibile, essere presenti nel matrimonio come un primo incentivo, come punto d’avvio.… In secondo luogo, il matrimonio, lungi dall’avere come suo scopo precipuo quello di portare al compimento perfetto l’amore romantico, ha da compiere nei cuori umani ben altra opera: un’infinitamente più profonda e più misteriosa operazione di alchimia: voglio dire che ha da trasformare l’amore romantico, o quanto di esso esisteva all’inizio, in un vero e proprio amore umano, reale ed  indistruttibile, in un amore veramente disinteressato, che non esclude il sesso, si capisce, ma che diviene sempre più indipendente dal sesso, e può persino essere, nelle sue forme più elevate, completamente libero dal desiderio e dall’interferenza sessuale, in quanto di natura essenzialmente spirituale: una completa ed irrevocabile donazione dell’uno all’altro, per amore dell’altro. Così è che il matrimonio può essere un’autentica comunità d’amore tra uomo e donna: qualcosa di costruito non sulla sabbia, ma sulla roccia, perché poggia su di un amore genuinamente umano, non animale, e genuinamente spirituale, genuinamente personale: attraverso l’ardua disciplina dell’autosacrificio ed a forza di rinunce e purificazioni.… E allora ciascuno può diventare una specie di Angelo custode dell’altro: preparato e pronto, proprio come un Angelo custode deve essere, a molto perdonare all’altro: infatti la legge evangelica del reciproco perdono bene esprime, mi pare, un’esigenza fondamentale, che è valida non soltanto nell’ordine soprannaturale, ma anche nell’ordine terreno e temporale, e per le società umane di base, quali la società domestica e la società politica. Ciascuno, in altre parole, può allora rendersi realmente dedito al bene e alla salvezza dell’altro (Jacques Maritain, Riflessioni sull’America).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-28T23:49:00+02:00da fraternidade
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