Giorno per giorno – 16 Aprile 2010

Carissimi,

“Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare? […] Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6, 5.8). “Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”. Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato soldi per vivere bene. È per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica”. Abbiamo buone ragioni di pensare che, la Lettera del cittadino di Adro  e la vicenda che l’ha motivata,  la conosciate tutti. Forse anche monsignor Fisichella che magari ne avrà tratto motivo di vergognarsi un po’, per il  fatto che tante lezioni ci vengano da gente che, conosca o non conosca il Vangelo, frequenti o non frequenti la chiesa, da quella Parola, che si ritrova chissà come dentro, si lascia poi guidare nelle scelte concrete della vita. Noi, quella lettera (ce l’aveva fatta avere ieri il nostro amico Beppe di Romano Canavese), l’abbiamo letta stamattina per aiutarci nella meditazione del Vangelo. La fame delle moltitudini, o anche solo la fame dei nostri vicini, ha bisogno di piccoli gesti coraggiosi per [cominciare ad] essere saziata. Ha bisogno della rinuncia di qualcuno a qualcosa. Della merenda del ragazzo del racconto evangelico, o dei diecimila euro dell’imprenditore di Adro. E dei gesti che altri, anche noi, volendolo, sapranno (sapremo) far seguire. Non per imboccare la strada di un assistenzialismo che non risolve i problemi a monte, ma per guardare alla realtà in una prospettiva diversa. Solo da qui può cominciare quello che potremmo chiamare il contagio del Regno. Sempre che noi non si preferisca continuare a coltivare e accarezzare i nostri piccoli egoismi. E gli altri si dannino! Già, il vostro Mons. Fisichella, rispondendo, piuttosto seccato, a una lettera aperta dello scrittore Magris, che gli aveva scritto in proposito, ribadiva quest’oggi sul Corriere: “La Lega,  quanto ai problemi etici, manifesta una piena condivisione  con il pensiero della Chiesa”. Perdinci, non ce n’eravamo accorti. A meno che l’etica, per il nostro, si riduca a qualche affermazione propagandistica, senza per altro nessuna conseguenza pratica, sulla pillola abortiva RU486 o a qualche tema nei suoi immediati paraggi. A noi, tanto tempo fa, avevano insegnato che i comandamenti erano dieci. E comunque, anche volendoci limitare ad uno solo, ci verrebbe da pensare che  se il “Non uccidere” vale per lo zigote delle prime quattro settimane di gravidanza, valga assai più (o almeno altrettanto) per gli individui già nati e cresciuti, anche extra-comunitari (o questi sono senz’anima?), coloro che la Lega da sempre insegna siano da ributtare a mare o gli si debba sparare addosso. O che, concretamente, siano lasciati morire nella nostra indifferenza. Cosa a cui il cittadino di Adro, non diversamente dal ragazzo del racconto evangelico, ha opposto il suo “Io non ci sto”, “Io voglio far qualcosa”.  Un’ultimo appunto. Mons. Fisichella rimprovera a Magris il suo far ricorso a citazioni bibliche. E, tuttavia, la parola di Dio  non costituisce forse il pane di cui ogni cristiano è chiamato ad alimentarsi ogni giorno? Raccontano che anche Mons. Marcinkus (e noi speriamo si tratti solo di un aneddoto senza fondamento), durante una riunione di banchieri alle Bahamas, dove lui rappresentava lo IOR, quando, in apertura di seduta, un banchiere, timidamente, accennò al fatto che si potesse cominciare con una preghiera, avrebbe risposto con insofferenza: “Bando alle ciance, andiamo al sodo”. E, dal suo punto di vista, probabilmente aveva ragione. Il problema vero, però, come sempre, riguarda noi, non gli altri. Noi ci chiediamo allora: qual è il Cristo che annunciamo ai nostri fratelli? A servizio di quali interessi siamo disposti a svenderlo?

 

Le memorie di oggi sono tutte, a diverso titolo,  memorie di piccoli. Ricordiamo, infatti, Iqbal Masih, martire per i diritti dell’infanzia, Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio,  e Bernadette Soubirous, come un chicco di grano.

 

16 MASIH.jpgIqbal Masih era nato nel 1983 a Muridke, in Pakistan, da una giovane e poverissima coppia cristiana, Bezak e Fredrem. All’eta di cinque anni venne ceduto dai genitori ad un certo Gullah, artigiano di tappeti, per far fronte a una situazione debitoria divenuta insostenibile. Fu l’inizio di una schiavitù, comune a milioni di altri bambini,  che si vedono negato il diritto ad un’infanzia che lasci spazio alla serenità degli affetti familiari, dei giochi tra coetanei, degli studi che preparano un futuro migliore. Organizzato e controllato dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”, il lavoro al telaio di questi bambini durava fino a dodici ore al giorno, con ritmi massacranti. Per Iqbal, tutto questo durò per sei anni, fino a quando, nel 1993, quasi materializzazione di un sogno impossibile, all’entrata della fabbrica apparve Ehsan Ullah Khan, un avvocato attivista del Fronte di liberazione dal lavoro forzato. Quell’incontro segnò per il piccolo Iqbal una nuova vita.  Cominciò a studiare (“diventerò avvocato per difendere i bambini-schiavi”), e a viaggiare, per denunciare lo sfruttamento suo e di miriadi di suoi coetanei. Presto, in Pakistan, cominciò a sentirsi l’effetto di queste denunce: decine di fabbriche di tappeti, che sfruttavano il lavoro minorile, furono infatti costrette a chiudere i battenti. Ma, cominciarono a piovere anche le minacce di morte, sul piccolo e sulla sua famiglia. Iqbal fece sapere: “Non ho più paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me”. E continuò imperturbabile. Poi la mattina di Pasqua, 16 aprile 1995, uscito di chiesa, il ragazzino fece ritorno a casa e, inforcata la bicicletta, prese a giocare spensierato con due cuginetti. Il suo assassino lo stava aspettando. Due colpi di fucile posero fine alle sue speranze e ai suoi sogni, ma non a quelle di milioni di altri bambini che, dalla sua vita e dalla sua morte, cominciarono a scorgere il profilarsi di una nuova aurora.

 

16 BENTO JOSÉ LABRE.jpgBenedetto Giuseppe Labre era nato ad Amettes, presso Arras, in Francia, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di una famiglia di piccoli agricoltori. Dopo gli studi presso la scuola del villaggio, chiese invano ai genitori il permesso di farsi trappista. Compiuti i diciotto anni, bussò alla porta della Certosa di S. Aldegonda, poi a quella dei cistercensi di Montagne, in Normandia, ma senza risultato. Riuscì a trattenersi qualche settimana nella certosa di Neuville e, per un periodo un po’ più lungo, nell’abbazia cistercense di Sept-Fons. Ma non faceva per lui. Sicché alla fine risolse che il suo monastero sarebbe stato la strada. E si recò a Roma. Una bisaccia in spalla, col Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario, un rosario e una croce era tutto ciò che questo vagabondo di Dio si portava appresso. Il suo pasto era sobrio: un pezzo di pane e qualche erba. Se riceveva dell’elemosina, subito la condivideva con gli altri poveri.  Di notte si riparava sotto le fornici del Colosseo, di giorno pregava o leggeva le Scritture. Compì numerosi pellegrinaggi, ma tornava sempre a Roma. Lì, morì il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, che lo aveva raccolto per strada svenuto. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Monti

 

16 BERNADETTA SOUBIRUS.jpgBernadette Soubirous  aveva solo quattordici anni, quando l’11 febbraio 1858, una fredda mattina di giovedì grasso, in cui era andata per legna, vide  per la prima volta, alla grotta di Massabielle, quella che per molto tempo lei stessa chiamò semplicemente Quellacosa.  La ragazzina, che  era nata il 7 gennaio 1844, a Lourdes, nella famiglia del mugnaio François, sposato a Louise Casterot, era analfabeta e parlava solo dialetto e fu così che anche Quellacosa prese a parlarle in dialetto. Si sarebbe rifatta viva altre volte, in seguito e, dato che sembrava piacerle pregare, Bernadette si prestava volentieri a recitare con lei la corona. Per come andava il mondo, del resto, pareva non restasse che pregare. Poi vennero i giornali, le autorità, il vescovo, la pubblicità e i profittatori che spuntano sempre. Lei, la piccola non c’aveva mica il fisico, né, a dire il vero, neanche la voglia di tutto questo. Sicché il 7  luglio 1866, si presentò al convento di Saint-Gildard, delle Suore della Carità di Nevers, dicendo: “Vorrei solo nascondermi” e promettendosi: “Non vivrò un solo istante senza amare”. Che era poi quanto aveva appreso dalla sua Signora.  Visse là 13 anni, senza che nessuno ne sapesse più niente, facendo la sacrestana, l’infermiera, e infine la malata. Di un male che non perdona. Della sua malattia dirà: “Sono macinata come un chicco di grano”. Morì trentacinquenne, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.5, 34-42; Salmo 27; Vangelo di Giovanni, cap.6, 1-15.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

Noi ci si congeda qui, con una citazione di Arturo Paoli, tratta dal suo libriccino “Progetto/Gesù: una società fraterna” (La Cittadella). Che ci sembra abbia a che vedere con quanto siamo venuti dicendo. E che è comunque, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

L’eucaristia siamo noi, amici, siamo noi che abbiamo l’impegno assoluto di trasformarci in una comunità riconciliata e riconciliatrice. Perciò il primo passo quando andiamo a ricevere l’eucaristia è quello di guardarci intorno  e domandarci: Siamo già riconciliati fra noi? Questo, però, è il primo passo, vorrei dire che è il momento simbolico dell’eucaristia, abbastanza facile. Fra poco quando celebreremo l’eucaristia fra noi, credo che non abbiamo bisogno di tante riflessioni per sentire che siamo fratelli, che ci vogliamo bene, ma il passo difficile è quando passiamo la porta, dopo esserci assunti la responsabilità terribile di essere un riconciliatore, e questo mi obbliga assolutamente a una revisione seria delle mie scelte economiche, delle mie scelte politiche; a una revisione seria perché io ho assunto l’impegno con Cristo, che mi ha trasformato, di collaborare alla riconciliazione fra gli uomini e questo mi farà dolere la testa, avrò dei problemi, dovrò rifletterci su, perché qui non mi hanno dato ricette. Questo vuol dire essere vittima: vivere questa tortura, questa preoccupazione, questo portare il peso degli altri. I poveri lo portano perché hanno lo stomaco vuoto, non hanno lavoro, non sanno se sopravviveranno domani; e noi forse portiamo il peso di non sapere come fare perché tutti questi beni che abbiamo nelle mani, questi beni che produce il mondo, questa vita abbondante che produce il mondo arrivi a tutti. (Arturo Paoli, Progetto/Gesù: una società fraterna).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-16T23:27:00+02:00da fraternidade
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