Giorno per giorno – 15 Aprile 2010

Carissimi,

“Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Gv 3, 35-36). Non si capisce bene se il brano evangelico di oggi costituisca la continuazione del discorso di Giovanni Battista, presentato nei versetti immediatemente precedenti, o un commento riassuntivo del capitolo da parte dell’evangelista, o piuttosto, un discorso dello stesso Gesù, che Giovanni pone qui per l’affinità con i temi trattati precedentemente. In coerenza con la proposta della liturgia di questo tempo pasquale, noi abbiamo cercato di leggerlo e intenderlo alla luce della risurrezione di Gesù, il Crocifisso, interpretata come conferma della rivelazione di Dio, da Lui incarnata nell’arco della sua vita, attraverso i suoi insegnamenti e i suoi gesti, ma soprattutto con la sua passione e morte. Vista, quest’ultima, come compimento della profezia del “servo sofferente” di Isaia (Is 52, 13 – 53, 12).  L’abbiamo fatto, nel pomeriggio, con i ragazzi della chácara di recupero. E bisogna dire che l’impatto con questa lettura, che descrive una realtà da loro fin troppo conosciuta, in prima persona, fino a ieri, è straordinariamente forte. Più forte ancora la scoperta che Dio, attraverso suo Figlio, vi entra dentro e la fa sua. “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi; non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Is 53, 2-3).  Quello siamo noi, gettati su un marciapiede, o nella rotonda dell’Aeroporto, o giù al vecchio Macello. Già, è Dio, che fa ciò che neppure un padre, una madre, un fratello saprebbe mai fare: ragazzo mio (per lui siamo sempre ragazzi a qualunque età!), dato che tu non riesci a tirarti fuori dal male del mondo (o non riesci a fargli fronte) – perché il male (l’iniquità) è del mondo, di questo mondo, spesso benpensante, pulito, al di sopra di ogni sospetto – ed io non riesco a guarirti, resto qui con te, a uccidermi lentamente, a morire. E, che ne siamo coscienti o meno, se oggi siamo qui, se ci siamo convinti, per chissà quale lampo interiore, che non era giusto finire così, continuare ad ucciderci così, è perché in qualche modo abbiamo sentito su di noi, dentro di noi (quel corpo che faceva schifo agli altri) la simpatia di Dio. E abbiamo con Lui compiuto il primo passo per risorgere. Ora Lui ci chiede: ve la sentite di diventare miei complici, agenti di risurrezione nel mondo? Ve la sentite di far vostra la mia causa, la causa di tutti i perdenti, i perduti del mondo, gli sconfitti e gli esclusi da questo sistema, che pianifica e produce la morte (anche attraverso il colossale traffico di ogni tipo di droghe) di tutti coloro che non sono funzionali all’arricchimento di pochi? Beh, se accettate, sarete i miei nuovi apostoli. Credere nel Figlio è questa cosa qui. E se noi ci crediamo davvero, la vita eterna (la vita di Dio)  è in noi. E se invece non ci crediamo, ecco la realtà del mondo d’oggi (ma anche di ieri, in forme solo diverse), su cui domina l’ira di Dio, una brutta parola per dire la sua assenza, o l’esilio, o la morte a cui l’abbiamo condannato. Uccidere l’autore della vita è uccidere la vita stessa e far regnare la violenza e la morte. E viceversa. Dove regna oppressione, sfruttamento, violenza e morte, o anche solo indifferenza, abbiamo già ucciso Dio, anche se si va a cantare le litanie, magari in latino o in bergamasco, a scelta, tutte le domeniche in chiesa.        

  

Di uno che aveva scelto inequivocabilmente gli scarti della storia, del mondo, del sistema, facciamo memoria oggi: Damiano di Molokai, prete, missionario e martire della carità.

 

15_DAMIÃO_DE_MOLOKAI.JPGGiuseppe de Veuster era nato a Tremeloo, in Belgio, il 3 gennaio 1841 e nel 1860 era entrato nella congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, prendendo il nome di Damiano. Ancora seminarista, quando nel 1863 un fratello ammalato non potè partire missionario, chiese al superiore di poterlo sostituire. S’imbarcò il 2 novembre dello stesso anno, raggiungendo Honolulu il 19 marzo 1864, dove qualche mese dopo ricevette la sua ordinazione a presbitero. Per nove anni evangelizzò la popolazione di Puno e Kohala. Nel frattempo, il rapido diffondersi di un’epidemia di lebbra, indusse le autorità a segregare quanti erano colpiti dalla malattia. Nel 1866 il primo gruppo di infetti fu inviato a Kalaupapa, sull’isola di Molokai. Quivi abbandonati, senza nessuna assistenza né possibilità di cura, i poveretti sopravvivevano finché potevano in condizioni di degrado fisico e morale. Nel 1873, il Vicario apostolico dell’arcipelago lanciò un appello perché un prete si recasse sull’isola a a prestare assistenza ai lebbrosi di Molokai, tra i quali c’erano anche alcuni cattolici. Padre Damiano si offrì. Lì si ingegnò a fare di tutto: carpentiere, falegname, infermiere, e prete naturalmente. Si abituò a vivere con i lebbrosi, come loro, senza cautele o distinzioni capaci di creare barriere tra lui e la sua gente. Nel 1884, si scoprì malato di lebbra. La notizia che padre Damiano era lebbroso commosse la cerchia dei suoi estimatori: furono molti coloro che si offrirono di lavorare con lui, religiosi e religiose, altre persone che si mettevano in cammino, per fare la loro parte. Il 15 aprile 1889, dopo sedici anni d’apostolato tra i lebbrosi di Molokai, all’età di 48 anni, ormai senza più forze, Damiano si congedava dai suoi figli.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap. 5, 27-33; Salmo 34; Vangelo di Giovanni, cap.3, 31-36.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

È tutto. Ci hanno mandato un paio di giorni fa questa citazione lapidaria di Thomas Merton, tratta dal suo  Life and Holiness” (Herder and Herder). E noi, nel congedarci,  ve la giriamo come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Se siamo chiamati da Dio alla santità di vita, e se la santità supera la nostra capacità naturale di ottenerla (il che è senza dubbio vero), allora ne deriva che Dio stesso deve darci la luce, la forza e il coraggio di assolvere il compito che Egli ci chiede. Lui ci darà certamente la grazia di cui abbiamo bisogno. Se non diventiamo santi, è perché non approfittiamo del suo dono. (Thomas Merton, Life and Holiness).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-15T23:52:00+02:00da fraternidade
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