Giorno per giorno – 11 Aprile 2010

Carissimi,

“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente! Gli rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio!” (Gv  20, 26-28).  Gli altri, che erano stati presenti otto giorni prima, gli avevano solo detto: Abbiamo visto il Signore. E lui aveva espresso l’esigenza di capire meglio e di più: chi è il Signore che avete visto e qual è il significato di “quelle mani” e di “quel fianco”? Come anche noi abbiamo bisogno di capire e di ridircelo sempre. Se no, la nostra fede è fede nei fantasmi. Ed eccolo di nuovo, Gesù, otto giorni dopo, entrare, farsi avanti e chiamare Tommaso (che, come il suo equivalente greco, Didimo, significa “Gemello”, gemello nostro nella fede e nei dubbi). “Metti qui il tuo dito, tendi la tua mano”. Ecco, il Signore è (e sarà per sempre) tutto li, in quei segni che mostra, assai più che in qualunque altro segno e miracolo che possa aver compiuto. Il mistero infinito, che l’universo non può contenere, ora lo si può contemplare: è, da allora, tutto contenuto in quelle ferite, che esprimono la comunione estrema di Dio con le ferite di tutti i suoi figli e figlie, e in una parola: Shalom, pace. Che è insieme perdono, riconciliazione, vita. Una nostra amica di costì ci ha telefonato giusto ieri, per dirci della sua Pasqua, trascorsa in un’abbazia benedettina, nei pressi di Padova, e del calore e nutrimento spirituale propiziati dalla liturgia di quei giorni santi. Poi ci ha aggiunto un piccolo episodio accadutole alla stazione, in attesa del treno che l’avrebbe riportata a casa.  Un giovane le si è avvicinato, e le fa scandendo bene le parole: Posso parlarti? E lei: certo. E lui: io sono di Marocco.  E ha cominciato a dirle di sé  e della sua storia. Per poi concludere: qui tutte le porte sono chiuse. Non ha chiesto nulla, né soldi, né altro. Le stava solo mostrando le sue piaghe, avendo trovato uno spiraglio, una breccia, tra tante porte chiuse. Proprio come allora. Lei stava partendo e non sapeva bene che dirgli. Gli fa: forse puoi tentare qui e gli ha dato l’indirizzo di un prete. Lui l’ha preso, l’ha messo via. E ha guardato per un lungo momento la nostra amica con uno sguardo luminoso, pieno di gratitudine. Poi l’ha baciata sulle guance e se n’è andato. Era il suo modo di dirle Shalom. Anzi, in questo caso, sarebbe meglio dire: Salaam. Che è comunque: Pace. Era la parola del perdono su questo mondo, che solo i poveri possono pronunciare. Era Lui, il Crocifisso risorto. È questa la vera Pasqua, assai più di ogni possibile liturgia.      

 

I testi che la liturgia di questo Ottavo Giorno e 2ª Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.4, 32-35; Salmo 118; 1ª Lettera di Giovanni, cap.5, 1-6; Vangelo di Giovanni, cap.20, 19-31.

 

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le chiese e comunità cristiane.  

 

Oggi il nostro Calendario ecumenico ci porta le memorie di Calinic di Cernica, monaco e pastore, e di George Augustus Selwyn, pastore e testimone di Cristo in Nuova Zelanda.

 

11 CALINIC.jpgCostantino Antonescu era nato a Bucarest nel 1787 e a vent’anni, dopo una brillante carriera negli studi, aveva deciso di votarsi alla vita monastica, entrando nel monastero di Cernica, dove assunse il nome di Calinic. Uomo ascetico, amante dell’orazione e profondamente umile, manifestò da subito i tratti di una spiritualità matura ed equilibrata, al punto che la comunità lo volle come suo confessore e padre spirituale, quando era solo ventiseienne. Eletto quattro anni più tardi igumeno del monastero, mantenne quest’ufficio per trentun anni, dando un forte impulso alla vitalità dello stesso. Eletto vescovo di Rimnicul Valcea nel 1850, Calinic riuscì in pochi anni a rinnovare la vita di quella Chiesa, prima di far ritorno al suo amato monastero ove si spense l’11 aprile 1868.      

 

11 George Augustus Selwyn.jpgGeorge Augustus Selwyn nacque il 5 aprile 1809 a Hampstead, in Inghilterra, figlio di un avvocato costituzionalista, William Selwyn e di sua moglie, Laetitia Frances Kynaston. Durante i suoi studi, a Ealing, divenne amico inseparabile di John H. Newman, il futuro cardinale e santo. La sua carriera universitaria, a Eaton e a Cambridge,  fu segnata dall’assegnazione di numerosi premi al merito,  sia come studente che come atleta. Selwyn era infatti, tra l’altro, un eccellente nuotatore. In quegli stessi anni maturò la sua vocazione ecclesiastica, che lo portò ad essere ordinato diacono nel 1833 e presbitero l’anno successivo. Nel giugno 1839, sposò, a Londra, Sarah Harriet Richardson e, due anni dopo, fu nominato e consacrato primo vescovo della Nuova Zelanda. Come prima cosa, decise di imparare la lingua maori, in modo da poter predicare già al suo arrivo nella lingua del posto. Subito dopo si mise a fondare comunità non solo nella Nuova Zelanda, ma in quasi tutte le isole della Melanesia. Si sentì autorizzato a farlo, perché il documento di nomina, per un errore dell’estensore, indicò il limiti della nuova diocesi a 34 gradi di latitudine a nord dell’equatore, invece che 34 gradi di latitudine a sud. (Sarà solo nel 1957 che le isole diventeranno una provincia separata della comunione anglicana). Durante gli anni del suo episcopato in quella regione fu sempre attento a non entrare in concorrenza con le missioni di altre chiese, per evitare di porre ostacoli al libero annuncio della Parola di Dio. Nella situazione di tensione tra la potenza coloniale britannica e le popolazioni locali, Selwyn difese sempre i diritti degli indigeni e, nel Primo Sinodo Generale della Chiesa in Nuova Zelanda, garantì l’adozione del principio della piena partecipazione dei cristiani Maori al governo della Chiesa. Nel 1867, Selwyn fu nominato vescovo di Lichfield, in Inghilterra, dove fece ritorno sia pure riluttante e ove visse fino all’11 aprile del 1878. 

 

11 PACEM IN TERRIS.jpgL’11 Aprile 1963, Giovanni XXIII rendeva pubblica l’enciclica Pacem in Terris, che rappresenta il vertice del suo magistero sul tema della Pace. È una parola che non cessa di interpellare la Chiesa e l’intera comunità umana. In tempi che ne sembrano ancora assai lontani.

 

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi al brano di un Discorso sulla Pasqua di Basilio di Seleucia (sec. V).   Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Cristo entra nella casa ove si erano nascosti gli apostoli e appare loro a porte chiuse. Ma Tommaso, che non era presente, non ci crede; desidera vedere Gesù con i propri occhi e rifiuta i racconti dei compagni. Si tura gli orecchi perché vuole aprire gli occhi. Lo divora l’impazienza, quando pronunzia queste parole: Se non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Troppo esigente per credere, Tommaso vomita fuori diffidenza, sperando di procurarsi un’apparizione di Gesù. È come se dicesse: I miei dubbi svaniranno soltanto quando lo vedrò. Metterò il dito nei segni dei chiodi e abbraccerò il Signore che tanto sospiro. Rimproveri pure la mia incredulità, ma mi lasci contemplarlo. Se non credo, si farà vedere da me, e quando lo stringerò crederò e godrò della sua presenza. Voglio vedere quelle mani trafitte che hanno guarito le mani scellerate di Adamo. Io voglio vedere quel petto che ha espulso la morte dal nostro petto. Voglio essere un testimone oculare del Signore, e non basarmi solo su testimonianze altrui. Il vostro racconto esaspera la mia brama, ma anche inasprisce il mio dolore. Il mio male guarirà, quando stringerò il farmaco fra queste mie mani. Gesù riappare allora otto giorni dopo e dissipa la tristezza e l’incredulità del discepolo. Non sopprime soltanto il dubbio di Tommaso, ma colma la sua attesa. Il Signore entra nella casa, quando le porte sono sprangate, e conferma a Tommaso l’incredibile miracolo della risurrezione con una incredibile apparizione. Gli dice: “Metti il dito nel posto dei chiodi. Mi cercavi, quando non ero presente; approfitta ora. Conosco la tua brama, anche se taci. Prima che tu parli, so quel che pensi. Udii le tue parole e, anche se invisibile. ti stavo accanto. Anche se non mi mostravo, ero vicino ai tuoi dubbi; senza farmi vedere, davo tempo alla tua incredulità, in attesa del tuo desiderio. Metti il tuo dito nel posto dei chiodi e stendi la tua mano nel mio costato e non essere incredulo, ma credente”. Tommaso lo tocca, la diffidenza gli cade e, infiammato da fede sincera e da un amore degno di Dio, esclama: Mio Signore e mio Dio! E il Signore a lui: Perché mi hai veduto. hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Basilio di Seleucia, Discorso sulla Pasqua).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Aprile 2010ultima modifica: 2010-04-11T23:17:00+02:00da fraternidade
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