Giorno per giorno – 07 Febbraio 2010

Carissimi,

“Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore. Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc5, 8-11). All’inizio della chiamata, di ogni chiamata vera, c’è questa presa di coscienza del proprio peccato (il nostro faticare invano, la nostra realizzazione mancata, il nostro fallimento, insomma) davanti a quella Presenza che irrompe nella nostra vita e vi opera come grazia, cioè come gratuità che eccede ogni pensiero e ogni attesa. Dopo essersi fatta, essa, la Presenza, piccola piccola, e averci chiesto, averci anzi pregato (v.3), di metterle a disposizione ciò che siamo, quello che abbiamo. La nostra “barca”, oggi, la nostra vita, domani, chissà, la chiesa. Sì, Gesù ci chiede una irragionevole obbedienza. Di cui non ci pentiremo mai. E, alla fine, no, all’inizio, perché siamo solo all’inizio di quell’avventura, potremo dirgli, pieni di timore, ma anche di gioia: Vai via, Signore, non ti meritiamo!, ma dentro di noi gli grideremo: resta, Signore, che faremmo senza di te? E Lui saprà di poter contare su noi, sul nostro niente – più ancora di quanto noi riusciamo già a contare su di Lui – e ci affiderà quella missione per cui Lui è venuto, è vissuto e morto: pescare uomini, riscattarli cioè alla vita del Regno.       

 

I testi che la liturgia di questa V Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Isaia, cap.6, 1-2a. 3-8; Salmo 138; 1ª Lettera ai Corinzi, cap.15, 1-11; Vangelo di Luca, cap. 5, 1-11.

 

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

 

Oggi il nostro calendario ci ricorda il martirio di Sepé Tiaraju e del suo popolo guaraní; il metropolita Vladimir di Kiev con tutti i nuovi martiri del XX secolo in Russia e Ucraina; e Andraus El Samu’ili, monaco copto.

 

07 SEPÉ.jpgNei secoli XVII e XVIII, i missionari gesuiti, al fine di sottrarre le popolazioni indigene alla schiavitù e allo sfruttamento da parte dei bianchi, crearono nelle colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina numerose comunità agricole (reducciones), basate sulla proprietà collettiva della terra e delle macchine, dotate di ampi margini di auto-gestione amministrativa e, soprattutto, tenute separate dal mondo dei colonizzatori. Questo, per proteggerne in primo luogo l’incolumità, ma anche per fornir loro quell’istruzione intellettuale, religiosa, tecnica e associativa che, nella visione dei missionari, doveva più facilmente garantirgli la sopravvivenza. Si trattò, dunque, di un’esperienza improntata all’ideale di un comunitarismo egualitario che risaliva al cristianesimo primitivo. Nel 1732 si contavano una trentina di “reducciones” per un totale di circa 150.000 abitanti. Alla metà del secolo  le autorità coloniali, preoccupate per il significato sociale  trasgressivo dell’ ordine esistente che le “reducciones” andavano assumendo e per il potere alternativo che i gesuiti vi avevano costruito, posero fine con la forza all’esperimento. È in questo contesto che, nel 1753, Sepé Tiaraju prese l’iniziativa dell’insurrezione indigena della “riduccion” guaranì di São Nicolau, la prima a resistere all’ordine di evacuazione e trasferimento sull’altro lato del fiume Uruguay. A São Miguel (Rio Grande do Sul), Sepé guidò l’attacco ai carri che trasportavano le suppellettili della Chiesa, obbligando la comitiva a far ritorno alla missione. Per tre anni fu la figura centrale della resistenza agli imperi portoghese e spagnolo. Il 7 febbraio 1756 morì combattendo sull’ Arroio Caiboaté. In una scaramuccia, il suo cavallo cadde ed egli fu ferito da un soldato con una lancia. Prima di riuscire ad alzarsi fu ucciso con un colpo di pistola dal governatore di Montevideo che comandava la truppa.

 

07 VLADIMIRO DI KIEV.jpgBasil Nikiforovich Bogoyavlensky (che assunse in seguito il nome di Vladimir) era nato il 1° Gennaio 1848 nella famiglia del  prete Niceforo, nel villaggio di Malaya Morshka, distretto di Morshansky, provincia di Tambov, in Russia. Frequentata la scuola teologica di Tambov e proseguiti brillantemente gli studi  nella Facoltà teologica di Kiev, fu per sette anni professore in seminario, si sposò e fu ordinato prete il 13 gennaio 1882. L’8 febbraio 1886, dopo la morte della moglie e dell’unico figlio, entrò nel monastero della Santa Trinità di Kozlov, di cui fu nominato archimandrita. Il 21 maggio 1889 fu consacrato vescovo di Starorussk e, successivamente, esarca di Georgia, metropolita di Mosca, poi di Petrogrado e infine di Kiev. Ovunque, durante il suo ministero pastorale, si preoccupò di proteggere la sua gente, di combattere l’antica piaga dell’alcolismo, di offrire ai fedeli la luce di un genuino insegnamento cristiano. Nelle vicende drammatiche che accompagnarono la rivoluzione bolscevica, seppe mantenersi pastore di pace e di amore, fedele, onesto, tutto dedito a Cristo e alla Chiesa. La notte del 25 gennaio 1918 (7 febbraio nei calendario gregoriano), un gruppo di bolscevichi entrò nelle grotte della Laura di Kiev  e arrestarono il metropolita. Lungo la strada fu sommariamente processato e condannato a morte. Prima di morire volle benedire i suoi uccisori. Fu il primo di un numero incalcolabile di vittime, soprattutto monaci, preti e vescovi, che nei decenni successivi furono perseguitati, incarcerati, deportati e uccisi.

 

07 andraus_samuili_1.jpgYusef Khalil Ibrahim era nato verso il 1887 nel governatorato di Bani Suef, in Egitto.  A tre anni era divenuto cieco. Tredicenne, il padre l’aveva mandato al monastero di San Samuele, sull’altopiano del Qalamun, nel sud dell’Egitto, perché, alla scuola dei monaci, imparasse qualcose di utile per la vita. Yusef vi restò fino a ventidue anni, quando scoperta la vocazione monastica, chiese ed ottenne di farsi monaco. Fece dunque la sua professione religiosa e prese il nome di Andraus El Samu’ili. Da allora e fino alla morte la sua vita si svolse all’insegna dell’infanzia spirituale e della perfetta letizia, immersa nella preghiera, nell’abbandono alla volontà di Dio e nell’obbedienza ai fratelli, senza lamentarsi mai di nulla, in ogni circostanza. Lo chiamavano l’ “ospite celeste”, per dire che era già come un angelo. Morì il 7 febbraio 1989.

 

Nel pomeriggio si è andati con Edna a far visita a dona Maria Rezadeira. Che stava evidentemente meglio di ieri ed era, ora, piena di allegria di vederci. E ricordava tutto, o quasi, di tutti, o quasi. Raccontava con consapevolezza delle sue condizioni attuali, e riandava con  facilità ad episodi del passato. Diceva quanto le manca l’andare in chiesa e l’andare a pregare a casa degli altri. Che era ciò che sapeva fare meglio. O che più le piaceva. Le sue preghiere e i canti, qualcuno l’avrà anche dimenticato, ma altri li ricorda ancora bene. E così ce ne ha dato una convincente dimostrazione. Alla fine ci fa: fatemi sempre di queste sorprese!  Le abbiamo promesso che non mancheremo

 

È tutto per stasera. Per ricordare i Martiri russi e ucraini del XX secolo, vi proponiamo, nel congedarci, la testimonianza su padre Leonid Fëdorov, morto il 7 marzo 1935 nel lager delle Isole Solovki. È tratta dal libro di  Jurij Brodskij, “Solovki. Le isole del martirio” (La Casa di Matriona) ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Padre Leonid arrivò stremato, con la pelliccia ed enormi stivali di feltro che riuscivano appena a scaldargli i piedi gonfi, malati. Si vedeva che era in una condizione di spirito molto penosa. Ricordando gli anni del loro lavoro in comune, insisteva dolorosamente sulla propria indegnità… Allora a Julija Nikolaevna balenò un’idea per pacificare padre Leonid. Tirò fuori da un angolo i paramenti sacri che erano appartenuti secoli prima al santo metropolita Filipp, e glieli mise sulle ginocchia dicendo: “Anche lui forse si sentì colpevole, anche lui nel monastero degli Adolescenti, prima di morire, si rammentò di quello che aveva tralasciato, omesso, e forse anche lui pianse perché i suoi sforzi e le sue preghiere non erano arrivati fino a Dio. Eppure proprio lui è una delle pietre su cui si regge a tutt’oggi il cristianesimo russo. Padre Leonid, possibile che sia io a doverle ricordare che le sue sofferenze oggi sono il coronamento della sua vita e il pegno del nostro futuro”. L’esarca russo baciò il paramento. Poi, calmatosi, parlò a lungo del pegno della rinascita della Chiesa russa, racchiuso nella sua sofferenza […]: “Sono pochi quelli che hanno capito che la missione della Russia è racchiusa proprio nella sua sofferenza… Forse il contributo della Chiesa russa al tesoro della Chiesa universale è proprio la vocazione a mostrare nella sofferenza, e non nella vittoria, la propria appartenenza al Corpo Mistico di Cristo. Per noi la “vittoria che ha vinto il mondo” è la croce che si innalza sul mondo non per riceverne onori, ma per offrirsi in sacrificio…” (Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 07 Febbraio 2010ultima modifica: 2010-02-07T23:46:00+01:00da fraternidade
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