Giorno per giorno – 30 Gennaio 2010

Carissimi,

“Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4,  37-38). Beh, era un po’ prevedibile che, stamattina, leggendo questo brano di Vangelo, ci fosse chi ricordasse i morti causati dal maltempo nello Stato di Saõ Paulo e nel Paraná, nelle ultime settimane, e, più ancora, la terribile tragedia di Haiti.  “Signore, non ti importa che moriamo?”: quanti l’avranno pregato con queste o con altre parole. A Lui, importa sì, e tanto. E il seguito del racconto ce lo dimostra. Ma Lui non è tuttavia il grande Burattinaio che a volte (solo a volte!) ci fa comodo immaginare, Lui è il significato che noi come individui, ma, anche e soprattutto, come comuntà  umana (ed ecclesiale), accettiamo di dare alla nostra vita. Per questo Lui può chiederci: “Non avete ancora fede?” (v.40).  E se pretendiamo di averla, qual è la nostra fede? Quella che ci spinge a salvarci noi e, se va bene, qualcuno dei nostri? E gli altri, ci spiace tanto, non ci possiamo far nulla. Beh, questa non è fede. Non è la fede in Lui. La fede in Lui è altro: è farsi carico di tutti. Lo era già dai tempi di Mosè: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo clamore! Sono sceso a liberarlo”. Che poi significa, in realtà: rimboccati le maniche e vai a liberarlo. E Mosè obbedisce. Le nostre scelte (anche quelle politiche, anche quelle ecclesiali, oltre che quelle domestiche)  liberano o uccidono?  In un bell’articolo che la nostra amica Giovanna di Roma ci aveva mandato un paio di settimane fa si sosteneva che un terremoto di intensità uguale a quello che ha distrutto Port-au-Prince, aveva colpito vent’anni fa il sud di San Francisco, causando 63 morti. Un bel po’ di meno rispetto ai 150 mila di Haiti, vero?  Se a morire sono sempre più (e in quali proporzioni!) i poveri che i ricchi, questo deve pur voler dire qualcosa. E questo non ci deve portare alla facile conclusione che Dio dorma (o che, al contrario e peggio ancora, come sostiene quell’idiota televangelista milionario di Pat Robertson,  sia stato Lui a scatenare il terremoto di Haiti, per vendicarsi di un patto che gli haitiani avrebbero stipulato con il diavolo per liberarsi a suo tempo dalla Francia). No, in realtà, Dio, l’abbiamo addormentato o eliminato noi, nelle nostre vite, magari anche nelle nostre chiese. Per guadagnarci i nostri trenta denari d’argento o anche solo un piatto di lenticchie. Così, invece di preoccuparci della liberazione e, cioè, della vita della gente a cui abbiamo riservato finora minori opportunità (che è il significato del Dio di Gesù Cristo e della nostra fede in Lui), ci accontentiamo di una leggina che tuteli noi, di un finanziamento alla nostra scuola, o anche solo della retorica ipocrita di chi sventola slogan  del tipo Dio-patria-famiglia e non crede in nessuno dei tre.  Se, però, come ragionevolmente crediamo, nessuno di noi arrivi a riconoscersi in questa tipologia di [non] credenti, ricordiamo comunque quanto raccomandava Martin Luther King jr.: “La filantropia è una cosa lodevole, ma non deve portare il filantropo a trascurare le circostanze di ingiustizia economica che rendono necessaria la filantropia”.

 

Oggi è memoria del Mahatma (grande anima) Mohandas Karamchand Gandhi, profeta di pace e martire della nonviolenza. Di cui noi si fa memoria oggi.

 

30_GANDHI III.jpgMohandas Karamchand Gandhi nacque il 2 Ottobre 1869 a Pobandar, città costiera della penisola di Kathiawar, in India. Trascorse l’infanzia in un ambiente familiare agiato. A tredici anni, secondo le regole della propria casta, si sposò, divenendo padre a diciotto anni. Dopo aver compiuto i suoi studi in patria, si recò nel 1898 a Londra, per conseguire l’abilitazione alla professione forense. Restò lì circa tre anni. Tornato per un breve periodo in India, viaggiò alla volta del Sudafrica nel 1893, dove resterà fino al 1915, impegnandosi nella lotta non-violenta contro la discriminazione razziale che là dominava. Tornato in patria, volle in primo luogo dedicarsi al miglioramento morale e spirituale del suo popolo, cominciando da se stesso. A tal fine pronunciò i suoi voti: di assoluta onestà, del divieto di uccidere e della soppressione in sé del desiderio di nuocere o sopraffare chicchessia; di castità e di purezza  di vita, di dieta semplice e vegetariana e di perfetta povertà. Nel febbraio 1919, fondò il “Satyagraha Sabhaio”, per combattere la presenza coloniale britannica e conseguire l’indipendenza e l’unità nazionale, con mezzi non-violenti. La sua lotta appassionata  fu interrotta ripetutamente da arresti e carcerazioni, ma venne infine coronata da successo quando nel 1947, dopo lunghe trattative l’India ottenne infine l’indipendenza. Gandhi morì a Nuova Delhi, il 30 gennaio 1948, assassinato da un giornalista, Nathuram Godse, per conto del partito Hindu Mahasabha, che respingeva la dottrina gandhiana della nonviolenza e il suo progetto di conciliazione tra indù e musulmani.

 

Le letture proposte dalla liturgia odierna alla nostra riflessione sono tratte da:

2° Libro di Samuele, cap.12, 1-7a.10-17; Salmo 51; Vangelo di Marco, cap.4, 35-41.

 

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

 

Bene, noi ci si congeda qui, proponendovi una citazione di Mohandas Karamchand Gandhi, tratta da un suo articolo, dal titolo “La dottrina della spada”, apparso in “Young India”, il 20 agosto 1920, riportato nell’antologia di scritti gandhiani “Antiche come le montagne” (Edizioni di Comunità). È, per oggi, il nostro  

 

PENSIERO DEL GIORNO

Non sono un visionario. Affermo di essere un idealista pratico. La religione della nonviolenza non è fatta solo per i rishi e i santi. È fatta anche per la gente comune. La nonviolenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito resta dormiente nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della forza fisica. La dignità dell’uomo esige ubbidienza ad una legge più alta, alla forza dello spirito. Ho osato proporre all’India l’antica legge dell’abnegazione. Per  satyagraha e le sue diramazioni, la non-collaborazione e la resistenza civile non sono che nomi nuovi per la legge della sofferenza. I rishi, che scoprirono la legge della nonviolenza in mezzo alla violenza, furono geni più grandi di Newton. Essi stessi furono guerrieri più grandi di Wellington. Avendo conosciuto personalmente l’uso delle armi, ne compresero l’inutilità ed insegnarono ad un mondo stanco che la sua salvezza stava non nella violenza, ma nella nonviolenza. Nella sua condizione dinamica, nonviolenza significa sofferenza consapevole. Non vuol dire sottomettersi docilmente alla volontà del malvagio, ma opporsi con tutta l’anima alla volontà del tiranno. Agendo secondo questa legge del nostro essere, è possibile al singolo individuo sfidare tutta la potenza di un impero ingiusto per salvare il proprio onore, la religione, l’anima, e porre le basi della caduta di questo impero o della sua rigenerazione. (Mohandas Karamchand Gandhi, Antiche come le montagne).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.   

Giorno per giorno – 30 Gennaio 2010ultima modifica: 2010-01-30T22:38:00+01:00da fraternidade
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