Giorno per giorno – 25 Settembre 2009

Carissimi,

“Gesù domandò loro: Ma voi, chi dite che io sia? Pietro rispose: Il Cristo di Dio. Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno. (Lc 9, 20-22). Stamattina si diceva che, se fossimo vissuti al tempo di Gesù, probabilmente anche noi, condizionati (o forse no) da certi politici, dalle gerarchie religiose, dalle teste d’uovo dell’establishment, lo avremmo rifiutato.  Pietro ha azzardato a dire quello che ha detto. Anche se poi, l’immagine che aveva in mente di messia, era probabilmente più simile a quella di coloro che anche oggi ritengono tale il potente di turno, il soggetto vincente. Sennò, mica ci gioco più. Questo spiega perché i discepoli, al momento opportuno, se la siano data a gambe. Gesù non presentava un’immagine scontata di Dio e di sé come suo rappresentante. Al contrario. Pochi versetti di una qualche profezia, un salmo qua e là, per la gente comune, erano davvero troppo poca cosa, per ribaltare convinzioni secolari, costruite a partire da altre e più numerose profezie, da altri e più numerosi salmi e sentenze. Dio si gioca anche in questo caso in assoluta debolezza e chi si dispone ad accettarlo, arrischi la sua libertà in quest’avventura ai limiti della pazzia. E gli altri (anche quanti di noi, che a parole, dicono di credere in Gesù il Cristo!), pazienza! Continueranno (continueremo?) a confondere il crocifisso con un gingillo da appenderci al collo o all’orecchio, o con un inutile arredo per le aule scolastiche, i tribunali, persino le chiese. Perché noi continueremo a fare i cavoli nostri. A negare nei fatti il regno di Dio che quel Crocifisso rappresenta: la vita come dono. Per tutti. Anche per i miei nemici.        

 

Oggi facciamo memoria di Rabbi Akivà , maestro in Israele.

 

25 AKIVÀ.jpgAkivà era nato a Lydda intorno al 50 d.C.  Figlio di un proselito di nome Yosef, fino a quarant’anni fu povero, ignorante e, per dire così, anticlericale. Soleva infatti dire: Se incontrassi uno studioso della Bibbia, lo morderei come un somaro (Talmud, Pesachim 49b). Era pastore alle dipendenze di un ricco soprannominato Kalba Savua, perché si diceva che chiunque entrasse nella sua casa affamato come un cane (kalba), se ne ripartiva satollo (savua). Lì si innamorò della bella figlia di lui, Rachel, che accettò di sposarlo a patto che si mettesse a studiare seriamente la Bibbia. E fu un successo. Anche se questo significò per lei, almeno in un primo momento, la perdita dell’eredità paterna. Divenuto maestro famoso, Rabbi Akivà non dimenticò mai le sue umili origini e fu molto amato dal suo popolo. Insegnava che, tutto ciò che ci accade, Dio lo volge prima o poi al nostro bene. Sosteneva anche che ogni essere umano è creato a immagine di Dio e che per piacere a Dio non è necessario conoscere e praticare la Legge di Mosè (che è prerogativa e vocazione particolare d’Israele). È sufficiente vivere secondo la morale dettata dalle norme elementari della legge di Noè (vivere secondo giustizia, non praticare idolatria, non commettere incesto, non uccidere, non rubare, non prostituirsi, non cibarsi di carne viva). Amò molto il Cantico dei Cantici, diceva che alla sua luce possiamo leggere tutta la Bibbia come un rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Questo lo spinse a battersi perché fosse incluso nel canone della Bibbia ebraica. Quando scoppiò la rivolta antiromana di Shimon Bar Kokhbà, la appoggiò con convinzione, convinto del suo carattere messianico. La rivolta fu soffocata nel sangue. Akivà, imprigionato per non aver obbedito al divieto imperiale di insegnare pubblicamente la Torah, fu condannato alla dilacerazione delle membra per mezzo di arpioni. La condanna fu eseguita il 25 settembre dell’anno 135 (9 del mese ebraico di Tishri) e Rabbi Akivà morì il giorno successivo, festa dello Yom Kippur. Le sue ultime parole furono: Adonai ehad. Il Signore è uno solo. 

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Aggeo, cap.1, 15b – 2,9; Salmo 43; Vangelo di Luca, cap.9, 18-22.

 

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

 

“Immenso codice di legge e dottrina, il Talmud – parola che significa “insegnamento” – è da secoli e millenni l’autentico territorio della vita e del pensiero d’Israele. In ebraico esso è chiamato familiarmente yam, “mare” , a segno non soltanto della sua vastità ma soprattutto dell’infinità di direzioni che esso apre a chi vi si rivolge, in un continuo viavai di domande e risposte”. Elie Wiesel in una delle lezioni magistrali pronunciate all’inizio dell’anno 2000 all’Università di Bologna, raccolte nel libro “Sei riflessioni sul Talmud” (Bompiani), ha rivisitato la figura di Rabbi Akivá (o ’Aqiba), così come ci è stata tramandata dal Talmud. Nel congedarci, scegliamo di proporvene un brano come nostro   

 

PENSIERO DEL GIORNO

In generale era un umanista. In quanto tale, si oppose alla pena di morte. “Se facessi parte del Sinedrio” proclamò, “nessuno sarebbe mai condannato a morte”. La corte avrà forse perso un ottimo giudice, ma il Talmud ha guadagnato un ottimo insegnante, per di più coraggioso: fu il primo a liberarsi del testo, vale a dire, di un’interpretazione letterale del testo. Con rabbi ’Aqiba si aprì un’era totalmente nuova del Talmud, soprattutto nel campo delle leggende: con rabbi ’Aqiba il racconto della Legge divenne la Legge stessa. […] Essere insegnante e insegnare erano le sue passioni. Ci volle la morte del figlio per fargli interrompere una lezione con gli studenti. Ascoltate questa storia. Durante una lezione fu interrotto e informato della grave malattia del figlio Shim’on. “Shaalu” disse il maestro, con la tipica espressione di uno studioso, “avanti, fate domande, non distogliamoci dalle nostre questioni”. Arrivò un altro messaggero per annunciare l’aggravarsi delle condizioni di Shi’mon: “Hikhbid, si è aggravato”. Il maestro continuò ad insegnare. Giunse il terzo emissario: “Gosses, Shi’mon è agonizzante”. “Shaalu” mormorò il padre. Giunse l’ultimo messaggero: “Hishlim, tutto si è compiuto”. Soltanto allora rabbi ’Aqiba si tolse i tefillim,si stracciò i vestiti e iniziò a piangere, dicendo: “Finora abbiamo studiato la Torah, adesso dobbiamo onorare un uomo che ha concluso il suo cammino”. Al funerale tenne uno degli elogi più commoventi della letteratura talmudica: “Ascoltatemi, miei confratelli della casa d’Israele, ascoltatemi. Non vi siete riuniti qui per la mia saggezza, perché tra voi ci sono molti più saggi di me, non per la mia salute, perché tra voi ci sono molti più sani di me. Gli uomini del Sud probabilmente conoscono ’Aqiba, ma quelli del Nord, lo conoscono? Siete venuti per onorare la Torah, e questo mi dà conforto”. Glorioso Rabbi ’Aqiba. La morte del figlio, come di qualsiasi altra persona, aveva più significato della sua stessa morte. (Elie Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Settembre 2009ultima modifica: 2009-09-25T23:13:00+02:00da fraternidade
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