Giorno per giorno – 21 Settembre 2009

Carissimi,

“Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mt 9, 10-11).  La casa di cui si parla, Luca lo dice più esplicitamente nel suo Vangelo, è quella di Levi (Lc 5, 29), che, nel Vangelo che leggiamo oggi, è chiamato Matteo, il gabelliere che Gesù aveva appena chiamato alla sua sequela. Si tratta perciò di una casa malfamata (almeno agli occhi dei benpensanti), tanto è vero che si riempie subito di gente equivoca, a cui non par vero di poter rimediare un buon pasto, frutto dell’improvvisa generosità e allegria dell’anfitrione. Gesù non ci sta male in quella compagnia. Sa guardare ad essa con simpatia, senza esprimere alcun giudizio. E senza neanche pensare di, chissá, convertirseli tutti per miracolo e portarseli al suo seguito. No, Lui li vede, Lui ci vede. A qualcuno dice: vieni con me. Come è successo con Matteo. Con gli altri, ci mangia, ci beve, ci scherza e ci ride assieme. Questa è la grazia. In qualche caso, passerà del tempo, e uno o l’altro ricorderà quello sguardo, grazioso e gratuito insieme, e gli verrà voglia di ripeterlo. Altri, che comunque l’avranno ricevuto in dono, e per sempre, continueranno la loro vita, comune o no, un giorno più allegra, l’altro più triste, con più sbagli, meno sbagli, sino alla fine. Con Lui che se li guarda, anche se loro non lo vedono o non ci pensano più. La casa di Matteo è come dovrebbe essere la chiesa. Per questo ci hanno raccontato il fatto nel Vangelo. Se no, mica ce lo mettevano. La chiesa è quella che ha simpatia per il mondo. Non per il sistema-mondo che produce l’ingiustizia, ma per la gente che ci vive e ci soffre e ci si rallegra a modo suo. Poi succede che uno apre gli occhi e si accorge di come la chiesa lo guarda. E dice: ma io quello sguardo, l’avevo già incontrato. O solo sognato. E decide di farsi chiesa anche lui con gli altri.     

 

Oggi il calendario ci porta la memoria di Matteo, apostolo ed evangelista, e del gesuita Gabriele Malagrida, apostolo del Brasile.

 

21 Matteo Apostolo.jpgMatteo-Levi è uno dei Dodici, tradizionalmente considerato l’autore del primo dei vangeli canonici. Figlio di Alfeo, prima della sua conversione, era pubblicano, cioè esattore delle imposte per conto dei romani. Mentre stava seduto al banco dell’esattoria, Gesù lo vide e gli disse: “Seguimi”. E lui si alzò e lo seguì. Si ritiene che la sua attività apostolica si sia limitata, almeno in un primo momento, alla Palestina, o che, comunque, si sia diretta a una comunità di giudei cristiani, nell’ambito della quale sarebbe poi stato redatto il Vangelo che porta il suo nome. Una tradizione indica l’Etiopia come suo successivo campo di missione, altre tradizioni suggeriscono la Persia. Forse morì martire.

 

21 malagrida.jpgGabriele Malagrida nacque a Menaggio, sul lago di Como, il 6 dicembre 1689. Entrato nella Compagnia di Gesu nel 1711, dopo alcuni anni di insegnamento a Bastia, in Corsica, ottenne di partire  per il Brasile, nel 1721, dove per molti anni svolse il suo ministero nelle missioni del Pará e del Maranhão. Per dodici anni percorse oltre seimila chilometri, in gran parte a piedi, lungo un itinerario che lo portò fino a Salvador de Bahia e gli fece attraversare sulla via del ritorno gli attuali stati di Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraíba e Ceará. Fu una grande marcia al servizio del Vangelo, durante la quale predicò, battezzò, confessò, fondò conventi e costruì chiese, ma soprattutto denunciò le soperchierie dei ricchi, difese i diritti degli indios, protesse emarginati, poveri e prostitute, condividendo con loro uno stile di vita povero e austero. Recatosi per un breve soggiorno a Lisbona nel 1750, vi fece ritorno nel 1754, chiamato a corte e accolto da uno moltitudine di fedeli, presso i quali si era diffusa la fama della sua santità. Sfortunatamente questo suo soggiorno coincise con la salita al potere, nel 1756,  di Sebastião José de Carvalho e Melo, il famigerato marchese di Pombal, nelle cui mani si venne concentrando tutto il potere del Portogallo di Dom José I e che era nemico giurato delle missioni  e dei gesuiti. Due opuscolo piuttosto farneticanti, attribuiti all’anziano gesuita,  in cui si sosteneva che il terribile terremoto del 1° Novembre 1755 che aveva distrutto Lisbona  era da considerarsi un castigo divino, offrì il pretesto al marchese di Pombal per ordinarne l’arresto e istituire successivamente un processo presso la santa Inquisizione. I giudici, legati a filo doppio al potente ministro, condannarono il gesuita, come visionario ed eretico, consegnandolo al braccio secolare per essere strangolato e bruciato sulla pubblica piazza. Il che avvenne il 21 settembre 1761. L’anno seguente, papa Clemente XIII lo beatificò e proclamò “martire della chiesa e apostolo del Maranhão”.

 

I testi che la liturgia odierna consegnano alla nostra riflessione sono propri della memoria dell’apostolo e sono tratti da:

Lettera agli Efesini, cap.4, 1-7.11-13; Salmo 19; Vangelo di Matteo, cap. 9, 9-13.

 

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.  

 

I telegiornali di tutte le reti nazionali e di tutte le fasce orarie si sono occupati oggi di Júlio César, di Cícero e di Daniel, tre ragazzi di Londrina, nel Paraná, che si sono ritrovati eroi per la loro spericolatezza o per il loro coraggio. Tutto è cominciato con un’auto finita in una canale, che la corrente rapida determinata dalle piogge violente cadute nella regione stava sommergendo. E loro, i tre, due netturbini, l’altro fattorino, si calano giù e salvano l’uomo che stava alla guide e le due bambine, di cinque e otto anni, sui sedili posteriori. Mentre un passante li riprende con il cellulare. Quando arrivano i pompieri, dicono: potevano essere sei morti. Ma sono tre salvi e tre eroi, appunto. E oggi, la gente non parlava d’altro. 

 

Noi ci congediamo qui, offrendovi in lettura un brano del teologo cileno Segundo Galilea, tratto dal suo libro “L’amicizia di Dio. Il cristianesimo come amicizia” (Edizioni Paoline). È, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Come avviene nell’amicizia che Gesù ha per noi, il nostro amore fraterno è un amore misericordioso. In Gesù, la misericordia fa sì che la sua amicizia sia solidale e liberatrice; e l’amicizia che ha per noi fa sì che la sua misericordia non ci opprima, né ci collochi in uno stato di inferiorità. In modo analogo, anche noi dobbiamo unire alla misericordia un atteggiamento di amicizia fraterna. Ci libereremo, così, da due tentzioni della carità cristiana: l’orgoglio (fariseismo) o il paternalismo; e, analogamente, l’inefficacia del puro sentimentalismo o le mere buone intenzioni. L’atteggiamento fraterno e amichevole, se non cerca il bene reciproco attraverso l’esercizio della misericordia, rende la fraternità inefficace come liberazione dalle miserie e mutua solidarietà. È proprio dell’amore cristiano l’efficacia; ed essa si ottiene attraverso l’esercizio della misericordia, ad imitazione di Gesù. D’altronde, la misericordia se non è accompagnata da un atteggiamento di fraternità o amicizia rischia di umiliare l’altro, di non rispettarlo in tutta la sua dignità o di creare in “chi aiuta” sentimenti di superiorità. Sapersi e sentirsi fratello (o almeno amico) rende umile e dolce la misericordia e fa sì che gli aiuti e la solidarietà, compreso l’apostolato – che è la forma più elevata di misericordia -, creino legami di amicizia e di fraternità. Il vero amore di misericordia non consiste soltanto nel dare cose, denaro, tempo, dottrina o consigli. È donare se stesso in fraternità attraverso tutto ciò. La solidarietà cristiana è sintesi di fraternità e misericordia. (Segundo Galilea, L’amicizia di Dio).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 21 Settembre 2009ultima modifica: 2009-09-21T23:46:00+02:00da fraternidade
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