Giorno per giorno – 02 Settembre 2009

Carissimi,

“Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.” (Lc 4, 38-39). È evidente, ci dicevamo stamattina, che in ballo, in questo vangelo, non c’è [solo] la suocera di Simone, ma le febbri  che investono la comunità. E la febbre di cui qui si fa menzione è ciò che impedisce alla chiesa di vivere la sua missione come servizio (v.39). La conduce, cioè, a testimoniare altro dalla persona di chi sta in mezzo a noi “come colui che serve” (Lc 22, 27).  Che è la forma con cui Dio si dice nella storia ed è, almeno così si spera,  l’unica ragion d’essere della Chiesa e di chi ha scelto di farne parte.  Quali sono le febbri, che periodicamente ci assaltano, noi come chiesa, come comunità, come singoli individui? Le febbri che snaturano il messaggio che affermiamo di portare, travisano l’immagine di Dio, ci rendono interessati fruitori di una religione sostanzialmente a nostro uso e consumo? Crediamo che queste febbri abbiano tutte a che vedere con qualche forma del potere (magari solo immaginario), e con i mezzi con cui conseguirlo, conservarlo, e eventualmente esibirlo. Febbre è tutto ciò che ci separa dalla compagnia degli ultimi e dalla preoccupazione per loro – che invece è la caratteristica determinante del significato di Dio che Gesù incarna. Senza questo, ogni teologia, liturgia o pratica, che si asseriscano cristiane, finiscono per essere forme dell’idolatria, della superstizione, dell’ipocrisia. O della vanità, cioè semplici sciocchezze, che servono a gonfiarci d’orgoglio e a rinchiuderci nell’egoismo, foss’anche “santo”, della ricerca di salvezza (profana, coniugata come sicurezza, e, dato che non ci sta male, persino ultraterrena), a scapito di, o indipendentemente dagli altri.  “Sul far del giorno Gesù uscì e si recò in un luogo deserto” (Lc 4, 42). La Chiesa, anche quella che siamo noi, ha bisogno di tornare nel deserto, riscoprire nella preghiera il progetto originario del Dio del Sinai. Che vede la sofferenza della sua gente, ne ascolta il grido e scende a liberarla. Progetto che, certo, è duro, scomodo ed esigente. E che, con le cattive frequentazioni, si tende troppo facilmente a perdere per strada.

 

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di Farīd ad-dīn ’Attār, mistico islamico.

 

02 Farad Attar.jpgNato a Nishapur (Iran), verso la metà del sec. XII, ’Attār forma, con Sana’i e Rumi,  la triade dei grandi poeti-mistici islamici ed emerge come uno dei più grandi maestri del sufismo. Poco sappiamo della sua vita. Era figlio di uno speziale e, probabilmente, trascorse i suoi anni giovanili nella bottega paterna – dove, allontanatosene, farà ritorno più tardi -, alternando il culto delle belle lettere alla cura degli affari. Grande influenza esercitarono su di lui la madre, con la sua profonda religiosità, e i suoi maestri spirituali. Contro una visione legalistica della religione, sostenne l’urgenza di un rapporto più “cordiale” e meno “razionale” con la divinità, adottando un linguaggio che prefigura un rapporto da amante ad Amato ed elaborando un complesso di immagini metafore che si rifanno al modello della relazione amorosa e non a quello del rapporto servo-signore. Morì probabilmente nella città natale verso il 1230, in concomitanza con l’invasione mongola. Di lui è riportata la seguente sentenza: “Dio disse al Suo amico: Vuoi conoscere il segreto? Domanda a Satana”. L’uomo incontrò il diavolo e gli chiese del segreto. “Ricordati solo questo – gli rispose Satana – se non vuoi diventare come me, evita di dire io”.

 

I testi che la liturgia di oggi propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Lettera ai Colossesi, cap.1, 9-14; Salmo 52; Vangelo di Luca, cap.4, 38-44.

 

La preghiera Del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

 

“Io sono un viandante incurabile!”: si apre così una preghiera di Farīd ad-dīn ’Attār,  tratta dal suo “Il verbo degli uccelli” (Mondadori). No, noi siamo convinti che non ci sia febbre incurabile. Ma, magari è bene fare credere a Lui che noi lo pensiamo. Così che si senta più invogliato a smentirci. Quella preghiera, nel congedarci, ve la proponiamo come nostro  

 

PENSIERO DEL GIORNO

O Creatore, io sono un viandante incurabile! Come misera formica precipitai nelle profondità del tuo pozzo, e da tempo ignoro a quale gente io appartenga, cosa sia, chi sia e donde sia venuto. Ma senza alcun dubbio io sono solo, e annaspo nella più triste impotenza, ormai privo di cibo, di pace e di cuore. Ho consumato l’intera esistenza nello spasimo, senza ottenere alcun risultato. Tutto quanto ho intrapreso si è risolto a mio danno e ora la mia anima indugia sulle mie labbra per prendere congedo dal mondo. La fede mi ha abbandonato, ma il mondo è lontano dai miei occhi; e se l’Illusione si è dileguata, la realtà però ancora mi sfugge. Persino ignoro se io sia un fedele o un infedele, e cosa mi attenda finché resto così sospeso. Errante e sfinito come sono, che potrò fare di diverso? Sono al termine di un vicolo cieco, e il mio volto schiacciato contro un muro è divenuto un’ombra sfuggente. Ti supplico, apri a questo sventurato la tua porta, mostra la via a questa tua creatura smarrita! Il tuo servo è privo del viatico necessario, tra lacrime e sospiri non trova un istante di requie. Tu puoi incenerire le mie colpe con i roventi sospiri della mia anima, Tu puoi mondare il nerissimo libro dei miei peccati con le lacrime dei miei occhi! A colui che ha sparso torrenti di amorose lacrime, annuncia finalmente: “Vieni!”, essendo divenuto degno di abitare la tua casa. (Farīd ad-dīn ’Attār,  Il verbo degli uccelli).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.    

Giorno per giorno – 02 Settembre 2009ultima modifica: 2009-09-02T23:19:00+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo