Giorno per giorno – 26 Luglio 2009

Carissimi,

“Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6, 8-9). Il miracolo vero è questo. È il ragazzino che rinuncia al suo, per metterlo a disposizione della fame altrui. Scontando che assai probabilmente gli toccherà restare a stomaco vuoto. E sì che, a quei pani e ai due pesciolini ci aveva già fatto più di un pensiero, mentre ascoltava parlare quel Rabbi. Ma era proprio quella parola che aveva appena finito di ascoltare che l’aveva spinto a quel gesto. I poveri. I poveri sono campioni in questo: nel mettersi in gioco per intero. La fame, certo, è una gran brutta compagnia. Ma anche per l’altro, persino se è sconosciuto. Dona Dominga, giovedì sera, mentre si meditava questo Vangelo, aveva raccontato con tutta semplicità un fatto di quando era reduce della sua ultima maternità. Finita male, perché il bambino (per cui si era scelto il nome di Miguel) era nato morto, al termine di un parto cesareo. Da poco dimessa dall’ospedale, quel pomeriggio, si era appena stesa dolorante a letto, dopo aver spedito i più piccoli a giocare a casa della sorella che abitava poco lontano, nei pressi di Santa Barbara. E battono alla porta. La tentazione è di far finta di nulla. Ma la voce della coscienza è più forte. Sicché lei si solleva, passa da una stanza all’altra appoggiandosi alla parete e va ad aprire. “Oi, signora mia, scusi il disturbo, sa, ma è da ieri che non mangio, non avrebbe un piatto di qualcosa, per amor di Dio?”. Come dirgli di no? In casa era rimasto solo un litro di riso, un po’ di fagioli, e un “jilozinho misturado com ovo”. Quanto si sarebbe fatto bastare per la povera cena. Lui però, il viandante che si era affacciato sull’uscio, aveva la precedenza, perché era a digiuno dal giorno prima. Dona Dominga aveva allora insistito perché entrasse, ma l’uomo aveva declinato l’invito e se n’era rimasto in attesa fuori, seduto sul selciato. Mentre lei aveva diviso in due parti il riso e ora lo cucinava, e riscaldava i fagioli e i jiló con le uova. Lui, poi, aveva mangiato e ringraziato e se n’era andato, E dona Dominga poteva tornarsene a letto. Il tempo di stendersi, e battono alla porta. E lei che ritorna dolorante ad aprire. È una signora questa volta che dice: Buona donna, io sto cercando qualcuno… e forse potrebbe essere lei. Ho fatto un voto e ora devo pagarlo. Ho qui una cesta: posso lasciargliela? E scarica dal suo fusquinha un grande sacco di alimenti, con “un po’ di tutto”. I miracoli, per la nostra gente, che riesce ancora a scorgere in tutto il dito invisibile di Dio, sono questi. Anche se noi, con Gesù, sappiamo vedere chi, come la povera vedova del Vangelo, “ha dato più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12, 43-44). Il miracolo del pane e del pesce. Il miracolo di riso e jiló. Il miracolo del ragazzino e quello di dona Dominga. Che, con niente, saziano la fame dei poveri. Il regno è qui. Soltanto qui. Noi fatti lievito per moltiplicare il pane. O cuore grande per moltiplicare il riso.

 

I testi che la liturgia di questa XVII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:

2° Libro dei Re, cap.4, 42-44; Salmo 145; Lettera agli Efesini, cap.4, 1-6; Vangelo di Giovanni, cap.16, 1-15.

 

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

 

Qui da noi è la festa della patrona dello Stato e della città di Goiás, nonché della nostra diocesi e della nostra parrocchia. E anche di una nostra carissima amica di Verderio, di un’altra di Premia, e, probabilmente, di altre ancora. Dunque, non possiamo trascurare di menzionarla. Assieme, per altro, al suo beato marito (come, quasi sempre, beati sono i mariti a causa delle loro spose, e non sempre viceversa). Assieme sono protettori e modello dei “nonni” nel generare figli e figlie, che generino a loro volta  Gesù (e il suo significato) nelle loro vite.

 

26 Anna e Giacchino.jpgCi riferiamo, l’avrete capito, ai santi genitori della madre di Gesù, di cui cattolici, anglicani e veterocattolici celebrano la memoria oggi, mentre altre chiese lo fanno in date differenti. Basandosi sull’apocrifo Protoevangelo di Giacomo, la tradizione ha scelto di chiamarli Gioacchino e Anna. I Vangeli canonici, invece, non ne sanno nulla. Secondo il racconto, la sposa di Gioacchino, dopo una lunga sterilità, avrebbe impetrato dal Signore la nascita di Maria, che sarebbe divenuta la madre di Gesù, con la promessa di consacrarla a Lui. E tutto si realizzò.  A noi piace pensarli come una coppia di semplici contadini, laboriosi e devoti come si conviene, cui la giovane figlia dev’essere costata qualche grattacapo. Ma, anche per lei, visti i risultati, ne valse la pena. Come si vorrebbe per noi tutti.

 

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad un brano di Madeleine Delbrêl, tratto da “Nous autres, gens des rues” (Éditions du Seuil). Per chiudere con un’altra donna. Della razza di Cristo, di Maria, di Anna, di dona Dominga. È, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il Vangelo è annunciato davvero solo se l’evangelizzazione riproduce tra i cristiani e gli altri il cuore a cuore del cristiano con il Cristo del Vangelo. Ma nulla al mondo ci darà la bontà del Cristo se non il Cristo stesso. Nulla al mondo ci darà  l’accesso al cuore del nostro prossimo, se non il fatto d’aver dato a Cristo l’accesso al nostro. Il cuore fraterno, fraternamente buono, traduttore della buona novella non può essere che un cuore convertito. Cristo pretende di insegnarci lui stesso ciò che è contemporaneamente la condizione e il segno della conversione del cuore, ciò che non si può imparare e ricevere che da lui: l’umiltà e la dolcezza. Senza umiltà e senza dolcezza, non c’è cuore fraterno propriamente cristiano, né bontà ed evangelizzazione cristiane. È l’umiltà e la dolcezza che cicatrizzano in noi la ribellione e l’orgoglio originali. Senza esse, noi non potremmo essere per Dio delle creature vere e dei figli docili. Senza esse, noi potremmo forse trattare gli altri come fratelli, ma essi non sarebbero per noi e per davvero nostri fratelli. Questa è la “razza” di Cristo, ma essa deve realizzarsi senza sosta e ognuno deve consegnarsi a Cristo perché egli ci renda conformi alla sua razza. La fedeltà a questo lignaggio del Cristo è il fronte stesso della nostra lotta con il mondo. Spesso, noi poniamo la nostra battaglia altrove: è duro per noi, non di batterci, ma di batterci senza grandezza. Tuttavia, quando un cristiano accetta di portare su di sé la firma viva del Cristo, egli mette in allarme i cuori increduli. Voglio citare qui un fatto che fonda questa affermazione […]. Ho lavorato per molto tempo con un comunista. Egli era faticosamente fedele alle sue convinzioni e leale al suo partito. Non aveva né un passato cristiano, né alcuna memoria cristiana. Un giorno mi disse: “Ho conosciuto un cristiano che non dimnticherò mai. Era un uomo straordinario: prendeva a cuore tutto ciò che capitava agli altri; non parlava mai di quanto succedeva a lui; non si difendeva quando gli si voleva male”. Io non so chi sia questo cristiano. Ma, per lui, spesso ho reso e ancora rendo grazie a Dio. Chiedo a Dio di farmi somigliare a lui, io e molti altri.  (Madeleine Delbrêl, Nous autres, gens des rues).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.   

Giorno per giorno – 26 Luglio 2009ultima modifica: 2009-07-26T23:49:00+02:00da fraternidade
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