Giorno per giorno – 17 Luglio 2009

Carissimi,

“Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt  12, 7-8). Gesù aveva poco prima insegnato: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”(Mt 11, 29) ed ecco che subito (o quasi) dei buoni religiosi gli offrono l’occasione per mostrare in cosa consista questo imparare dalla mitezza e dall’umiltà di Dio (se crediamo, almeno, che in Gesù ci sia davvero in gioco Dio in persona e non per finta). Il motivo del contendere è un’oggettiva infrazione della legge del Sabato. La più sacra per l’ebreo. Ma, per Dio, c’è sempre qualcosa di più sacro: la vita dell’uomo. O anche, forse, solo la sua allegria. Che è ciò che dà sapore alla vita. E noi ce li vediamo, i discepoli, in compagnia di Gesù, che se ne vanno spensieratamente tra i campi, in giorno di sabato (avranno calcolato che non possono camminare più di tanto?) e a loro il pensiero di masticarsi un po’ di chicchi di grano dev’essere stato tanto tentatore come per il nostro Betão guadagnarsi una chiclete, sicché non ci pensano né uno né due a strappare qualche spiga, sfregarla, ottenendone quanto li aiuterà, se non altro, a smorzare l’appetito. Cosa farà in questo caso Dio? La nostra gente che è poco religiosa direbbe subito: una gran risata. E infatti. Questa è anche la risposta di Gesù. Se Dio è davvero l’Abba, cioè il Papà, non può che guardare con amore pieno di tenerezza ai suoi figli. Anche se ne combinano qualcuna di grossa. Come, per esempio, Davide e i suoi, che, in un colpo solo, hanno violato lo spazio sacro del tempio, rubato il pane ai sacerdoti, e proprio in giorno di sabato. Come ricorda Gesù ai suoi interlocutori (Mt 12, 3-4). Immaginarsi se non riderà il buon Dio dei poveri discepoli che sgranocchiano i loro chicchi di frumento. E, buon per noi, che ride anche di più dei loro improvvisati, severi giudici!!      

 

Oggi noi facciamo memoria di Bartolomeo de las Casas, pastore e difensore  della causa dei popoli indigeni e dei negri, Andrei Rublev monaco iconografo, François Varillon, gesuita e guida spirituale.

 

17 BARTOLOMEO_DE_LAS_CASA.JPGBartolomeo,  nato a Siviglia l’11 novembre 1484 da Pedro de Las Casas e Isabel de Sosa, entrambi di ascendenza ebraica, quando, diciottenne, risolse di seguire il padre  per il Nuovo Mondo, sognava di arricchirsi con i proventi delle piantagioni paterne, come un qualunque colono, sfruttando la mano d’opera schiava. Tuttavia, toccare con mano la crudeltà dei coloni e le indicibili sofferenze inflitte alle popolazioni indigene, fecero maturare una profonda crisi religiosa in lui, che nel frattempo aveva abbracciato lo stato ecclesiastico ed era stato ordinato, verso il 1510,  sacerdote. A partire dal 1514, resosi conto del crudele sfruttamento a cui erano sottoposti gli indigeni, vista la corruzione imperante tra i funzionari reali e  toccato dalla predicazione profetica del domenicano Antonio di Montesinos, che denunciava gli abusi e le crudeltà della conquista “cristiana”, Bartolomeo mutò radicalmente di vita.  Liberati gli indigeni alle  sue dipendenze e distribuite le sue terre, divenne da allora l’instancabile difensore dei diritti calpestati di quelle popolazioni oppresse.  Nel 1523, entrò nell’ordine domenicano, per mettersi in qualche modo al riparo dalle persecuzioni dei conquistadores, ma anche di buona parte della gerarchia ecclesiastica spagnola. Per nulla intimorito, frei Bartolomeo continuò la sua azione di denuncia, presso il governo centrale, sugli abusi degli spagnoli e le sofferenze degli indigeni. Scrisse la Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie con cui intese documentare la tragedia che si svolgeva sotto i suoi occhi.  Nominato a sessant’anni  vescovo del Chiapas (Messico), rimase solo tre anni in quell’ufficio, invariabilmente osteggiato dai colonizzatori spagnoli e dal suo stesso clero. Tornò in Spagna nel 1547, continuando da lì la sua lotta a favore degli indios, fino alla morte, avvenuta a Madrid, il 17 luglio 1566.

 

17 ANDREI RUBLEV.jpgAndrej Rublev nacque in Russia verso il 1360. Divenne monaco nel mostastero di Serpuchov, dove emise la professione religiosa e ricevette l’ordinazione presbiterale. Alla Laura di Radonez, dove visse a lungo, apprese l’arte dell’iconografia da Teofane il Greco e conobbe il suo migliore amico, il bulgaro San Daniele il Nero, con cui convisse e lavorò fino alla morte, sopraggiunta per i due nello stesso anno. A lui si devono i dipinti dell’iconostasi nella cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino a Mosca, gli affreschi nella cattedrale della Dormizione di Vladimir, alcune tavole dell’iconostasi della stessa chiesa, gli affreschi della cattedrale del Salvatore nel monastero di Andronik, e la famosa icona della Trinità, ispirata alla scena biblica dell’ospitalità offerta da Abramo ai tre angeli. Dal punto di vista spirituale Rublev fu senza dubbio un esicasta, praticava, cioè, il metodo ascetico della spiritualità ortodossa, che si serve soprattutto della “preghiera di Gesù”. Morì il 29 gennaio (11 febbraio del calendario gregoriano) 1427 (o 1430). Fatto oggetto di venerazione a livello locale, nei secoli XV e XVI, fu canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa nel 1988. La sua festa è celebrata oggi, 4 luglio (17 luglio del calendario gregoriano).

 

17 FRANCOIS VARILLON.jpgFrançois Varillon nacque a Bron, alla periferia di Lione, il 28 luglio 1905. A ventidue anni, nel 1927, decise di lasciare la fidanzata, Simona, per entrare nella Compagnia di Gesù. Pronunciò i suoi primi voti nel 1930 e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1937.  In seguito fu professore di lettere classiche e di filosofia e poi, per molti anni, assistente ecclesiastico di diversi movimenti dell’Azione cattolica, e, dal 1972 al 1978,  direttore della Casa di Ritiri di Châtelard. Morì il 17 luglio 1978. I suoi scritti di spiritualità hanno segnato intere generazioni di cristiani.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro dell’Esodo, cap.11, 10-12.14; Salmo 116B; Vangelo di Matteo, cap.12, 1-8.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessa l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

È stata irmã Paula a farci conoscere “L’humilité de Dieu” (Le Centurion) di François Varillon.  E quindi dovete a lei se, stasera, nel congedarci,  possiamo offrirvene un brano come nostro 

 

Pensiero del giorno

L’amore è povertà, dipendenza, umiltà. L’amante dice all’amato: “Tu sei la mia gioia”. È un’affermazione di povertà: senza di te sono povero di gioia. Oppure: “Tu sei tutto per me”: è l’affermazione del mio niente al di fuori di te. Amare è voler essere attraverso l’altro e per l’altro. Attraverso l’altro: è l’accoglienza. Per l’altro: è il dono. Entrambi gli aspetti sono di povertà. Ciò che, nell’amore vissuto umanamente, limita la volontà di accoglienza e di dono è rivendicazione di una ricchezza autarchica, dunque mutilazione dell’amore. Nel nostro mondo ogni amore è più o meno mutilato. Ma in ogni amore c’è amore sufficiente perché noi possiamo intravvedervi cos’è l’amore quando non è che amore, quando nulla limita la sua capacità di accogliere e di donare: esso è povertà. Le relazioni delle tre Persone divine sono relazioni di povertà. Dio è Povero in assoluto. Non si può dire al tempo stesso: “Ti amo” e “Voglio essere indipendente da te”. Questo annulla quello. Quando si ama si vuole dipendere: “Ti seguirò sino in capo al mondo”. Chi più ama più dipende. Un infinito d’amore è un assoluto, non dico di dipendenza, ma di volontà di dipendenza.  Se l’amore non è un aspetto di Dio, ma Dio stesso, voler dipendere qualifica il suo essere. Questa dipendenza non è l’effetto di un bisogno, come quello del bambino rispetto alla madre; è pura tensione verso l’altro, o attenzione all’altro, come quella della madre verso il suo bambino.  […] Dio è sovranamente indipendente, dunque libero. Ma libero di amare e di andare fino all’estremo dell’amore. L’estremo dell’amore è la rinuncia all’indipendenza. Al limite è la morte. “Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per coloro che ama”. Dio è immensamente grande, potente. Ma la sua grandezza consiste nel potere tutto ciò che può l’amore fino all’annullamento di sé nell’umiltà dello sguardo. In altri termini, Dio è tale che la sua ricchezza d’amore, la sua libertà d’amore, la sua potenza d’amore, non possono essere e di fatto non sono tradotte, espresse, rivelate se non attraverso la povertà, dipendenza e l’umiltà di Gesù Cristo. (François Varillon, L’humilité de Dieu).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 17 Luglio 2009ultima modifica: 2009-07-17T23:48:00+02:00da fraternidade
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