Giorno per giorno – 21 Giugno 2009

Carissimi,

“Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4, 37-38). Se noi, giovedì sera, si era tutti lì, a casa di Valdecí, a riflettere su questo Vangelo, è perché in una maniera o nell’altra, per qualunque avventura o pericolo si possa essere passati, ce la siamo sempre cavata. E la nostra gente ce n’avrebbe da raccontare. Quasi tutti. Come gli apostoli del Vangelo. Però a noi, l’altra sera, sono venuti in mente soprattutto quelli che non hanno potuto raccontare niente. Chi, forse clandestino, non è mai arrivato a destinazione con quella traversata in barca. O, deportato, non è più tornato da quel viaggio in treno. O, immigrato, gli è bastato, per morire dentro, di salire in uno dei vostri metro. O, manifestante, è rimasto sull’asfalto, in una strada di Teheran, in questi giorni di fuoco. O chi, per molto meno, e più banalmente, è uscito di casa e non vi ha più fatto ritorno. O non è neppure uscito. Se i discepoli chiamano Gesù, non è perché si aspettino un qualche miracolo, difatti alla fine si chiederanno chi fosse mai “costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono” (v.41). È per stare insieme, che lo svegliano. Per fare qualcosa, insieme. Anche solo, aver paura e disperarsi insieme, se non si riesce a escogitare altro.  Gesù dice che non bisogna avere paura. Che la fede è questo non avere paura. E sgrida il mare. Questa marea montante del male che ogni tanto vuole uccidere i cuccioli di Dio, i suoi più piccoli, gli ultimi. E bisogna che qualcuno cominci a gridare contro di essa. E a minacciarla: non ti azzardare! Questo è Gesù che torna vivo in mezzo a noi.  Se non è un idolino, piccolo piccolo, che non vale niente. Che non sa nulla di Dio. Di suo Padre.

 

clandestini bis.jpgI testi che la liturgia di questa XII Domenica del Tempo Comune sono tratti da:

Libro di Giobbe, cap.38, 1.8-11; Salmo 107; 2ª Lettera ai Corizi, cap.5, 14-17;Vangelo di Marco, cap.4, 35-41.

 

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le chiese e comunità  cristiane.

 

Oggi il calendario ci porta le memorie di Luigi Gonzaga, gesuita al servizio degli ultimi, e di Sergio Ortiz, seminarista e martire per amore dei suoi fratelli, in Guatemala.

 

21 LUIGI GONZAGA 3.jpgLuigi Gonzaga era nato a Castiglione delle Stiviere il 9 marzo 1568 dalla contessa Marta Tana di Santena e dal marchese Ferrante Gonzaga. Il padre tentò inutilmente di farne un soldato e di avviarlo alla vita di corte, prima a Castiglione, poi a Firenze, Mantova e, infine in Spagna.  Il ragazzo aveva idee sufficientemente chiare e altri progetti per la testa. Sicché maturò presto la sua scelta. Dopo aver rinunciato ai diritti di primogenitura a favore del fratello Rodolfo, nel 1587, sfidando l’ira del padre, lasciò ogni cosa per entrare nella Compagnia di Gesù. Nei pochi anni che gli restarono da vivere, durante il noviziato, prima, e poi, e al Collegio Romano, prese sempre più coscienza della chiamata di Cristo al servizio dei più diseredati. Quando nel 1591 scoppiò un’epidemia di peste,  non esitò a dedicare tutto il tempo disponibile ad alleviare le sofferenze dei poveri malati. In breve, tuttavia,  la sua esile fibra cedette e Luigi Gonzaga morì appena ventitreenne il 21 giugno 1591.  

 

21 SERGIO ORTIZ.jpgDi Sergio Ortiz, le scarne notizie che abbiamo ce le fornisce il Martirologio latinoamericano. Seminarista, fu sequestrato nei pressi dell’Università Nazionale di San Carlos, a Città del Guatemala. Il cadavere fu ritrovato due giorni dopo, il 21 giugno 1984, con evidenti segni di tortura e un colpo di grazia alla tempia destra. L’omicidio di Sergio fu subito considerato un gesto repressivo ufficiale contro la Chiesa cattolica, davanti all’atteggiamento di denuncia da essa assunto nei confronti della situazione economica, politica e sociale del Guatemala. Come denuncerà il 14 luglio 1984, mons. Próspero Penados del Barrio, arcivescovo del Guatemala: “Vi sono gruppi di potere interessati al fatto che i poveri non si sollevino per esigere i loro diritti… Il fatto che qualche sacerdote si metta a servizio della promozione del contadino, che si proponga di coscientizzarlo, di additargli la sua condizione umana e la sua dignità, può essere male interpretato da chi non vuole che il guatemalteco si svegli ed esiga i suoi diritti come persona. .. La predicazione della Chiesa non è un messaggio astratto a esseri astratti, ma a esseri molto concreti, che affrontano problemi di emarginazione, disoccupazione e violenza”.  Sergio rappresenta questa Chiesa concreta che ridesta il fratello oppresso e si pone decisamente dalla sua parte.

 

Primo giorno di inverno, in questo nostro emisfero, dall’altra parte del mondo. Ma, inverno, sembra esserci un po’ dappertutto. Dicevamo in apertura di quelli che non ce la fanno. Di quelli che non tornano. Di quelli, quando Gesù non si sveglia. O tace e non si mette a sgridare il vento e non sfida le onde con il suo: non toccate questi miei fratelli.  Di quelli per i quali ci si chiederà: i cristiani, la chiesa, dov’erano? A civettare con i potenti di turno? A dar man forte ai marosi? O anche solo a fingere di non vedere. Un giorno don Tonino Bello, saputo di un povero zingaro, ladro per giunta, ucciso nel corso di una rapina, prese carta e penna e gli scrisse una lettera. Che l’altro non avrebbe mai letto. Ma noi, sì. Nel congedarci, ve ne proponiamo un brano come nostro     

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina e sono venuto di buon’ora al cimitero a celebrare le esequie per te. […] Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a ventidue anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che rotolava nel fango con te, povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome. Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello, oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai è troppo tardi, questo dolcissimo nome. Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto. Ma non per la tua morte. Perché stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale forse te lo meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente e lui si è difeso. […] No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita. […] Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l’icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbruttito che è fosco come il tuo, che ha cessato di battere per sempre.  Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch’io, che l’altro giorno, quando c’era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica. Perdonaci, Massimo. Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo. Perdonaci per l’indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire. (Don Tonino Bello, Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

 

 

Giorno per giorno – 21 Giugno 2009ultima modifica: 2009-06-21T23:53:00+02:00da fraternidade
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