Giorno per giorno – 17 Maggio 2009

Carissimi,
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15). Djari é il marito di Maria Conceição, che però tutti chiamano (scritto, più correttamente, Ném), ed è il papà di Eliane. Farà cinquantuno anni a giugno e, a parte il postino e Gerson, da un po’ di tempo in qua, è l’unico uomo del bairro che partecipa sistematicamente agli incontri della Comunità. E quasi sempre interviene a dire la sua. Giovedì sera, a casa di Arcelina, dove eravamo riuniti per meditare il Vangelo di oggi, forse per il timore che si lasciasse intimidire dalla presenza di Graça e Lucélia, che erano lì in visita, qualcuno aveva buttato lì: sentiamo cosa ha da dirci Djari che ci propone sempre una parola saggia. E, con una lusinga come questa, uno mica può tirarsi indietro. Sicché, dopo aver accennato un mezzo sorriso, forse di compiacimento, forse di scherzo, ha detto solo, correggendo un po’ il Vangelo: Gesù non ha mai chiamato “servo” nessuno, lui non è come un padrone e neppure come noi che facciamo distinzioni, ci chiama sempre tutti amici e ci tratta come tali. E la riprova sta proprio nel fatto che noi si era lì ad ascoltare tutto cio che Lui aveva udito dal Padre. E gli altri che non l’ascoltano, non è che per Lui sono meno amici, è solo che loro non lo sanno. Succede come quando uno spedisce una lettera, ma questa non è giunta a destinazione o forse solo tarda ad arrivare. E in quella lettera sta scritto: sai, tu sei mio figlio, oppure: ti voglio bene, firmato: Dio. E, se uno non la riceve, continuerà a pensare che è figlio di nessuno, o che nessuno gli vuol bene per davvero. Ma, il fatto che lui non ne sia al corrente, non cambia la realtà di quella paternità e di quell’amore. Certo, Dio ha bisogno di postini per fare arrivare quella lettera in ogni parte del mondo. I cristiani dovrebbero essere i postini di Dio o, se preferiamo, la lettera di Dio al mondo. Dovrebbero poter dire a chi li incontra: vedi? Come io ti tratto, il mio sguardo, i miei gesti, la mia cura nei tuoi confronti, sono le parole di questa lettera che dice tutta la passione, fino ad oggi segreta, che Dio nutre da sempre per te. Se noi non siamo così, come dice Giovanni nella sua lettera, è perché non abbiamo ancora conosciuto Dio.

I testi che la liturgia di questa VI Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.10, 25-26.34-35. 44-48; Salmo 98; 1ª Lettera di Giovanni, cap.4, 7-10; Vangelo di Giovanni, cap.15, 9-17.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Il calendario ci porta oggi la memoria dei 29 Martiri di Shimabara e Unzen, in Giappone.

17 UNZEN MEMORIAL.jpgNel secolo XVI il Giappone era nominalmente governato da un imperatore, ma di fatto era diviso in 76 feudi, a capo di ognuno dei quali c’era un daimyô (feudatario). A partire dal 1568, uno di essi, Oda Nabunaga era riuscito a impadronirsi di alcuni territori vicini, dando così inizio al processo di unificazione dell’Impero del Sol Levante. Sotto il suo governo, i missionari, giunti nel Paese vent’anni prima, ebbero modo di lavorare efficacemente all’evangelizzazione delle popolazioni shintoiste e buddhiste. Le cose cominciarono a cambiare quando, con l’assassinio di Oda, nel 1582, assunse il potere Toyotomi Hideyoshi, un suo generale. Questi, nel 1587, emanò un editto, in seguito ritirato e poi reiterato, che ordinava l’espulsione di tutti i missionari. Se nel primo decennio del secolo XVII, i cristiani riuscirono tutto sommato a vivere tranquilli e persino a incrementare il loro numero, l’editto emesso nel 1614 dallo shôgun Hidetada bollava inesorabilmente il cristianesimo come “jakyô” (religione malvagia). Questo significava il definitivo allontanamento dei missionari, la distruzione delle chiese e il forzato ritorno dei neoconvertiti all’antica religione. Nel 1622 lo shôgun Tokugawa Iemitsu iniziò una violenta persecuzione contro chi si ostinava a restare cristiano. Fu in queste circostanze che, nel feudo del daimyô Matsukura Nobushige, nelle date del 21 e 28 febbraio e del 17 maggio, 29 cristiani, tutti laici, uomini, donne e un bambino, imprigionati e torturati nei giorni immediatamente precedenti, vennero messi a morte. Del gruppo facevano parte Paolo Uchibori Sakuemon (sposato), con i tre figli Baldassarre, Antonio (18 anni) e Ignazio (5 anni); Gaspare Kizaemon, Maria Mine, con il marito Gioacchino Mine Sukedayu, Gasparre Nagai Sônan (sposato), Ludovico Shinzaburô, Dionisio Saeki Zenka con suo figlio Ludovico, e il nipote Damiano Ichiyata (sposato), Leo Nakayama Sôkan con suo figlio Paolo, Giovanni Kizaki, Giovanni Heisaku (sposato), Tommaso Shingorô, Alessio Shôhachi, Tommaso Kondo Hyôuemon (sposato) e Giovanni Araki Kenshichi, Paolo Nashida Kyûri, Maria, Giovanni Matsutaki, Bartolomeo Baba Hanuemon, Luigi Sukeuemon, Paolo Onizuka Magouemon, Luigi Hayashida Sôka con la moglie Maddalena e il figlio Paolo.

Oggi il nostro amico Alberto di Crodo ha fatto la Cresima, confermando così, per la vita intera (così almeno dovrebbe essere), le sue promesse battesimali. È un impegno mica da ridere, il suo come il nostro. Perciò, tifando per lui e per noi, l’accompagniamo con le nostre preghiere. E, dato che ci siamo, vi chiediamo di ricordare anche la sua cuginetta Simona, figlia dei nostri [più che] amici Maria Grazia ed Ennio, di Milano, che sta avendo qualche problema di salute. Ma tutto si risolverà presto e bene.

È tutto, per stasera. Da un opuscolo edito dalla Conferenza episcopale giapponese e tradotto in italiano con il titolo “Giappone, il secolo dei martiri” (Centro Saveriano Animazione Missionaria), prendiamo un brano che racconta la fine di alcuni dei martiri di cui facciamo oggi memoria. Ve lo proponiamo come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Gioacchino Minesuke e gli altri nove cristiani erano rimasti in carcere per ordine del daimyô. Avendo tutti un incarico di capogruppo o capo-villaggio, dovevano redigere il resoconto finale delle loro attività finanziarie. Con fedeltà portarono a termine il loro compito, usando le due dita rimaste dopo l’amputazione subita. Ma anche per loro, all’alba del 17 maggio, si aprirono di nuovo le porte delle carceri e del castello, questa volta per iniziare l’ultima ascesa verso il monte Unzen. Lungo il cammino, durante una sosta, Gioacchino scrisse su una pietra un magnifico haiku (sonetto) di saluto alla vita terrena: “Ora vedo vicino a me il paradiso che pensavo tanto lontano. Il mio cuore esulta di gioia”. Certamente la paura e il conflitto interiore assalivano anche loro. I testimoni riferiscono infatti che l’ultima preghiera di Giovanni Matsutake fu un’invocazione di aiuto: “Signore Gesù, non lasciarmi allontanare dalle tue mani!”. E subito la loro esistenza fu inghiottita da quelle bollenti acque solforose. Il monte Unzen conserva ancora oggi il segno del loro martirio e della loro speranza. (CEG, Giappone, il secolo dei martiri).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 17 Maggio 2009ultima modifica: 2009-05-17T23:47:00+02:00da fraternidade
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