Giorno per giorno – 12 Maggio 2009

Carissimi,
“In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14, 27). Shalom, pace, è in ebraico, anche la parola del saluto e del commiato. Un po’ come il vostro “ciao”, anche se il contenuto semantico di quella è infinitamente più ricco di quest’ultimo. Ed è a questo contenuto che Gesù ci rimanda. La parola che Lui dice è efficace, diventa presenza concreta nella nostra vita. Non si riduce mai pertanto a saluto banale. Come, spesso, è invece per noi, all’incontrarci, il “Tudo bem?” (“Tutto bene?”), che ci scambiamo, senza neanche aspettare, di ritorno, il “Bem, graças a Deus!” (“Bene, grazie a Dio”). Che, qualche volta, neppure è vero che si stia bene, ma come spiegarlo a chi ce l’ha chiesto, se, quando ci accingiamo a rispondere, è già dieci metri più in là? Pace, poi, è addirittura uno dei nome di Dio, e quindi, quando Lui la pronuncia, ciò che ci dà è il dono di sé, la sua luce, la sua verità, la sua vita, la sua allegria. Niente a che fare con la pace che il mondo riesce, quando riesce, a raggiungere e a stipulare. Che è solo una sua sorella povera, poverissima, persino abusiva. Ma, in mancanza di meglio, ci si accontenterebbe anche di questo. “Dio di tutti i tempi, nella mia visita a Gerusalemme, la ‘Città della Pace’, casa spirituale di ebrei, cristiani e musulmani, porto di fronte a te le gioie, le speranze e le aspirazioni, le prove, le sofferenze e i disagi di tutti i tuoi popoli dovunque nel mondo. Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, ascolta il grido degli afflitti, dei timorosi, dei diseredati; manda la pace sulla Terra Santa, sul Medio Oriente, su tutta la famiglia umana; smuovi i cuori di tutti coloro che invocano il tuo nome, affinché camminino umilmente nel sentiero di giustizia e compassione. ‘Il Signore è buono con coloro che lo attendono, con gli animi che lo cercano’ (Lam 3, 25)”. È stata la preghiera che il papa ha scritto su un foglio bianco da presentare a Dio attraverso una fessura del Muro del Pianto. A Gerusalemme. E la facciamo nostra.

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Rabbi Meir e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele.

12 RABBI MEIR.jpgDiscepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo, Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro. Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”. Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

I testi che la liturgia odierna odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.14, 19-28; Salmo 145; Vangelo di Giovanni, cap.14, 27-31a.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

Due anni fa inauguravamo il Centro comunitario “Giovanni Gavazzoli”, come spazio offerto al bairro per crescere, studiare, confrontarci, lavorare, divertirci. Insieme. Fateci gli auguri. Se ne ha sempre bisogno.

Come si è visto più sopra, il Talmud afferma che quando la Mishnà (la Torah orale) presenta una sentenza, senza specificarne l’autore, essa deve essere attribuita a Rabbi Meir. Noi, allora ci congediamo proponendovi come ultima lettura (magari per farci su, noi e voi, un buon esame di coscienza!), una sentenza anonima (e, perciò di Rabbi Meir), tratta dai “Pirqè Avot”, nella versione che troviamo in “Detti di Rabbini” (Qiqajon). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Grande è la Torà, più del sacerdozio e più del regno. Perché al regno si accede mediante trenta gradini, e al sacerdozio mediante ventiquattro, ma la Torà non si acquisisce a meno di quarantotto condizioni. Con lo studio, con l’ascolto dell’orecchio, con la ripetizione delle labbra, con l’intelligenza del cuore, con la conoscenza del cuore, con timore e rispetto, con umiltà, con gioia, col servire i sapienti, con la critica dei compagni, con la discussione con i discepoli, con l’assiduità nello studio, con la padronanza della Scrittura, con la padronanza della Mishnà, con poco sonno, con poche chiacchiere, con pochi piaceri, con poco riso, con poche preoccupazioni mondane, con pazienza, con generosità, con la fiducia nei sapienti, e con la sopportazione delle sofferenze. [Inoltre, uno acquisisce la Torà] se sa stare al proprio posto, si accontenta della sua parte, erige una siepe intorno alle sue parole, non si vanta, è amabile, ama Dio, ama le creature, ama i gesti di carità, ama le correzioni, ama la rettitudine, rifugge dagli onori, non diventa arrogante per avere studiato, non sentenzia a cuor leggero, porta il giogo del suo compagno, lo giudica dal lato più favorevole, lo stabilisce nella verità, lo stabilisce nella pace, si applica nello studio, sa fare domande e sa rispondere, è capace di aggiungere [del suo] a quello che ha appreso [dagli altri], studia per poter insegnare, studia per praticare, fa sapiente il suo maestro, riferisce esattamente ciò che ha ascoltato, cita una parola in nome di chi l’ha detta, costui porta la redenzione nel mondo, come sta scritto: “Ed Ester riferì al re in nome di Mardocheo” (Est 2, 22). (Pirqè Avot, VI, 6).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2009ultima modifica: 2009-05-12T23:40:00+02:00da fraternidade
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