Giorno per giorno – 26 Aprile 2009

Carissimi,
“Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24, 45-48). Stamattina, durante l’Eucaristia che abbiamo celebrato con frei Marcos, su all’Aparecida, ci dicevamo che qualcosa non deve aver funzionato nelle previsioni di Gesù. E, certo, non per colpa sua. Noi siamo testimoni di nulla. Fosse per noi, anzi, Lui neanche è risorto. Infatti, non è riuscito ancora a convertire noi, suoi discepoli, figurarsi il mondo. E il perdono dei peccati? Macché, pure così attenti e sensibili se qualcuno ci raggiunge con una punta di spillo, noi siamo sempre pronti a rendere la pariglia, moltiplicata all’ennesima potenza, come ci pare giusto. E Lui lì: a mostrare le mani e i piedi (v. 39) e a dirci: Sono proprio io. Ed è precisamente ciò che non vorremmo sentire. Perché vogliono dire il dono e il perdono. Mille volte meglio un fantasma. Meno problemi, crucci e rimorsi per noi. E Lui a insistere: avete qualcosa da mangiare? (v.41). E la voglia è di rispondere: no, è finito tutto. Dato che quella scena, di Lui che mangia, vorremmo proprio potercela risparmiare. Perché se di risurrezione si deve parlare, che sia almeno una cosa eterea, spirituale, fuori dal mondo. A cui ci dedicheremo, se va bene, mezz’ora la settimana, durante una celebrazione che è sempre troppo lunga per i nostri gusti. E Lui, invece, ci rispedisce, sulla terra, e, materialista di un Dio, si mette a mangiare davanti a noi. Perché la risurrezione, per Lui, è per la carne, mica solo nella valle di Giosafat, ma qui, adesso. E, in quel racconto, Lui si limita a mostrarci come dev’essere anche per noi. Vorrebbe, infatti, vedere davanti a sé corpi risorti, cioè vite donate, in una escalation di amore.

I testi che la liturgia di questa 3ª Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.3, 13-15.17-19; Salmo 41; 1ª Lettera di Giovanni, cap.2, 1-5a; Vangelo di Luca, cap.24, 35-48.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di Origene, catechista, presbitero e martire, di Albert Peyriguère, contemplativo “berbero tra i berberi”, e di mons. Juan José Gerardi Conedera, martire per i diritti umani in Guaemala..

26 ORIGENE.jpgOrigene nacque verso il 185 probabilmente ad Alessandria. La persecuzione del 202 vide il martirio di suo padre, Leonida, e ridusse la famiglia in miseria. Nel 204 il vescovo della città, Demetrio, lo mise a capo della prima scuola catechetica ufficiale. Sostenitore di una vita ascetica, interpretando alla lettera un passo evangelico su quanti si fanno eunuchi per amore di Dio, Origene si evirò verso il 210. Forse dopo la persecuzione di Caracalla nel 215, si allontanò da Alessandria e si recò in Palestina, dove, su richiesta dei vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Gerusalemme, svolse un’intensa attività di predicazione e fu ordinato sacerdote. Tornato ad Alessandria, il vescovo Demetrio giudicó illegittima la sua ordinazione, a causa della sua mutilazione, e cominciò a perseguitarlo. Questo lo indusse a far ritorno a Cesarea e a stabilirsi là, fondando una scuola simile a quella di Alessandria. Fu scrittore infaticabile, scrisse commenti a quasi tutti i libri della Scrittura e numerosissime omelie o prediche, che prendono spunto da passi evangelici o biblici. Durante la persecuzione dell’ imperatore Decio fu incarcerato e barbaramente torturato. Morì in conseguenza di questo trattamento, all’ età di 70 anni, nel 253, a Tiro.

26 periguère.jpgAlbert Peyriguère era nato il 28 settembre 1883 ed era stato ordinato prete l’8 dicembre 1906. Nel 1914 fu inviato al fronte come barelliere e il coraggio dimostrato gli valse la croce di guerra e la medaglia al valor militare. Nel 1920 decise di partire per la Tunisia, dove, in un primo tempo, fu cappellano in un collegio, a Silonville, e poi parroco a Hammamet. Fu a quell’epoca che lesse la vita di Charles de Foucauld e decise che la sua vocazione sarebbe stata di vivere l’ideale evangelico secondo la spiritualità dell’eremita del Sahara. Per dar compimento al suo desiderio di “vivere in mezzo ai più poveri, tra gli indigeni, conducendo una vita di preghiera, di lavoro manuale, di sacrificio e di povertà”, nel giugno del 1926 lasciò la Tunisia per l’Algeria, dove con padre Camille de Chatouville, che aveva conosciuto l’eremita di Tamanrasset, fondò, nell’oasi di La Daya, una fraternità basata sulla regola scritta da de Foucauld. Durò poco. Debilitato, Peyriguère fece ritono in Francia il 29 agosto 1926. Nel gennaio del 1927, tuttavia, era già nuovamente in viaggio, questa volta con destinazione Marocco. Nel 1928 fu inviato a Taroudant, in una regione devastata dalla fame e da un’epidemia di tifo. Il prete si ammalò. Trasportato in fin di vita all’ospedale, riuscì tuttavia a scamparla. Nel luglio dello stesso anno decise di andare a vivere tra i Berberi, nel villaggio di El Kbab. Lì resterà fino alla morte e lì compirà il passo della sua più profonda conversione, che lo porterà a fare ciò che era mancato al suo modello e ispiratore: denunciare il colonialismo francese e le azioni criminali di cui si stava rendendo responsabile e schierarsi risolutamente al fianco della lotta per l’indipendenza del popolo marocchino. Quando, due anni dopo il conseguimento dell’indipendenza, il principe ereditario Moulay Hassan, il futuro re Hassan II, si recò a El Kbab per inaugurare una moschea, volle incontrare il marabutto cristiano per ringraziarlo: “Mio padre ed io, gli disse, sappiamo tutto ciò che avete fatto e tutto ciò che fate”. E l’anziano eremita gli rispose con un sorriso: “Anch’io sono un martire dell’indipendenza!…”. Albert Peyriguère morì a El Kbab il 26 aprile 1959 e fu sepolto, come desiderava, tra la sua gente.

26 gerardi.jpgJuan José Gerardi Conedera nacque a Città del Guatemala il 27 dicembre 1922. Ordinato sacerdote nel 1946, svolse la sua attività pastorale soprattutto nelle zone rurali del Paese, fino a quando fu nominato, il 9 maggio 1967, vescovo di Verapaz. Scelse come priorità del suo ministero la difesa e la valorizzazione della popolazione indigena, della loro cultura e delle loro lingue. Negli anni settanta, quando imperversava la violenza militare, non esitò a far sentire la sua voce in difesa delle vittime. Nominato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Guatemala, divenne, nel 1988, membro della Commissione nazionale di Riconciliazione, che aveva il compito di favorire i colloqui tra la guerriglia, il governo e la società civile in vista degli Accordi di Pace, che sarebbero stati firmati nel 1996. Fu tra i fondatori dell’Ufficio dei Diritti Umani dell’Arcivescovado (Odha) e si fece promotore del progetto “Recupero della Memoria Storica”, che produsse il rapporto “Guatemala: Nunca más”, una raccolta di migliaia di testimonianze delle vittime della violenza di trentasei anni di guerra civile e della repressione scatenata dall’esercito contro le popolazioni indigene. Due giorni dopo la presentazione del Rapporto, il 26 aprile 1998, mons. Gerardi veniva assassinato.

É tutto. Si diceva più sopra di corpi risorti, di vite donate. Che non è forse diverso da ciò che ci prospetta Origene in questa sua Omelia sull’Esodo, di cui, nel congedarci, vi proponiamo un brano come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà (2Cor 3,17). Come potremo trovare questa liberta noi che siamo gli schiavi del mondo, gli schiavi delle comodità, succubi come siamo dei desideri naturali? Certamente mi sforzo di correggermi, mi giudico, condanno le mie colpe. I miei ascoltatori esaminino da parte loro quel che pensano del proprio cuore. Eppure, lo dico di sfuggita, finché sono legato da uno di questi vincoli, non mi sono convertito al Signore, non ho raggiunto la vera libertà, dal momento che simili faccende e preoccupazioni del genere sono ancora capaci di coinvolgermi. Sono lo schiavo del cruccio o dell’affare che tiene il mio cuore prigioniero. Come sappiamo, sta scritto che uno è schiavo di ciò che l’ha vinto (2Pt 2,19). Anche se non sono dominato dalla passione per il denaro, anche se non sono vincolato dalla cura di beni o di ricchezze, tuttavia resto avido di lodi e bramo il successo, quando tengo conto della faccia che mi mostra la gente; mi cruccio di sapere ciò che il tale pensa di me, come mi stima il tal altro oppure temo di spiacere a questo e desidero piacere a quello. Finché ho tutte queste preoccupazioni, sono loro schiavo. Eppure vorrei far lo sforzo per liberarmene e per venire alla libertà di cui parla l’apostolo: Siete stati chiamati a libertà. Non fatevi schiavi degli uomini! (Gal 5,13) Ma chi mi procurerà di svincolarmi così, chi mi libererà da questa vergognosa schiavitù se non colui che ha detto: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero (Gv 8,36). Serviamo e amiamo perciò fedelmente il Signore nostro Dio, per meritare di ricevere in Cristo Gesù il dono della libertà. (Origene, Omelie sull’Esodo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Aprile 2009ultima modifica: 2009-04-26T23:32:00+02:00da fraternidade
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