Giorno per giorno – 17 Aprile 2009

Carissimi,
“Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No” (Gv 21, 4-5). Valdecí, che ha via via imparato a essere sintetica nelle sue collocazioni, forse anche perché si deve psicologicamente preparare per scappare al lavoro, stamattina diceva: Gesù si preoccupa delle difficoltà che i suoi fronteggiano. Che è come dire: Gesù è questa preoccupazione. Quei poveri cristi, nonostante fossero usciti, la sera, pieni di buona volontà e di speranze, avevano lavorato a vuoto, e ora non avevano di che mangiare. Già, capita! Ora, troppo spesso, quando si legge il Vangelo, la tentazione è quella di passare subito all’interpretazione “religiosa” del racconto, lasciando da parte la vita. Ma Gesù (come Dio, del resto) è preoccupato per la vita, non per la religione. La religione, per Lui, ha senso solo se contribuisce a far vivere i suoi figli e figlie. Se no, è alienazione o nevrosi. In altre parole, il buon Dio non ha liberato il popolo schiavo in Egitto (o risuscitato il suo figlio crocifisso) perché si potesse celebrare la festa di Pasqua (e voi poteste fare la gita fuori porta a Pasquetta). Al contrario, noi celebriamo Pasqua per ricordare che Dio vuole che ci liberiamo da ogni schiavitù e che instauriamo relazioni fraterne fondate sul dono e sul servizio reciproco. Così, ci pare abbia ragione Valdecí a dire che in primo luogo Gesù è, anche adesso che è risorto, come quando era vivo, preoccupato della fame e delle speranze frustrate dei suoi. E gli dà delle dritte. Voi, del Nord del mondo (che, qualche anno fa, si diceva un po’ spudoratamente “dalle radici cristiane”), che dritte date a quanti, spinti dalla fame, cercano di raggiungere le vostre sponde? Oltre che respingerli, buttarli a mare, proporre di sparargli addosso, rinchiuderli in qualche lager e così via? Potrebbero dire, avvistando le vostre coste: “È il Signore”? E buttarsi loro a mare, per l’allegria di raggiungere per primi la riva? Sì, lo sappiamo, la complessità dei problemi economici non si risolve con un po’ di facile retorica. Ma, quel pane e quel pesce che Lui già stava preparando per dar loro da mangiare – quell’Eucaristia, se preferite – dovrà pure suggerci, suggerirvi qualcosa da fare, no? Perché, poi, è in questo che consiste l’incontro col risorto. Se no, è meglio lasciar perdere.

I testi che la liturgia di questo Sesto Giorno della Festa di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.4, 1-12; Salmo 118; Vangelo di Giovanni, cap.21, 1-14.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che professa l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Il calendario ci porta oggi la memoria di Max Joseph Metzger, martire nella Germania nazista e di Kateri Tekakwitha, India mohawk al servizio dei suoi fratelli.

17 Max Joseph Metzger.jpgMax Joseph Metzger era nato il 3 febbraio 1887 nel villaggio di Schopfheim, in Germania. La sua esperienza come cappellano militare durante la Prima Guerra mondiale, lo spinse a dedicare la sua vita alla causa della pace, della riconciliazione e dell’ecumenismo. Dopo la guerra, oltre a collaborare con la Croce Bianca, un’organizzazione che offriva una presenza pastorale tra gli emarginati, Metzger fondò la Lega per la Pace mondiale e il Congresso Mondiale di Cristo Re, che aveva come finalità l’unità dei cristiani e la pace tra le nazioni. S’impegnò strenuamente a favorire il dialogo e la cooperazione tra cattolici e protestanti nel movimento Una Sancta. Durante la dittatura nazista, fu ripetutamente arrestato, senza che tuttavia la Gestapo riuscisse a trovare di che incriminarlo. Finalmente, nel giugno del 1943, gli furono sequestrate lettere indirizzate a vescovi stranieri, in cui si sollecitavano interventi che favorissero una fine negoziata della guerra. Accusato di tradimento, fu arrestato e incarcerato. Quando fu pronunciata la sentenza di morte, affermò: “Non provo nessuna vergogna, ma mi sento invece onorato di essere dichiarato disonorevole da questa corte”. Morì decapitato il 17 aprile 1944, offrendo la sua vita per la pace e per l’unità delle Chiese.

17 KATERI.jpgKateri Tekakwitha era nata nel 1656 a Ossernenon, un villaggio Mohawk (nell’attuale Stato di New York), figlia di un irochese pagano e di una prigioniera algonchina cristiana, che ne era divenuta sposa. Nel 1860 scampò ad un’epidemia di vaiolo (uno dei regali dell’invasione europea) che aveva colpito la popolazione della regione e che la lasciò orfana, con il volto sfigurato e una grave menomazione alla vista. Affidata ad uno zio, la bambina crebbe come le sue coetanee, lavorando nei campi, tenendo in ordine la casa comune, dedicandosi a piccoli lavori di artigianato. Di diverso, aveva che le piaceva recarsi nella nella foresta, per goderne la bellezza e ascoltarne le voci. Nel 1675, giunsero al suo villaggio dei gesuiti francesi, che le fecero riscoprire la fede della madre. Il giorno di Pasqua del 1676, fu battezzata e ricevette il nome di Kateri, ma dovette presto fuggire, riparando, dopo un viaggio di oltre trecento chilometri, presso la missione di san Francesco Saverio, nel villaggio di Kahnawake, vicino a dove oggi sorge Montreal, in Canada. Qui visse i pochi anni di vita che le restarono, lavorando, pregando e prendendosi cura dei sofferenti. Nella primavera del 1679 la salute di Kateri, già fragile, iniziò a peggiorare, minata anche dalle penitenze cui si sottoponeva. Morì, ventiquattrenne, alle tre del pomeriggio del mercoledì della settimana santa, il 17 aprile 1680.

L’amica che ce l’ha regalato per Pasqua, ci fa: Noi facciamo ritiri per meditare sulla passione del Signore, molto spesso in strutture cinque stelle. Lui ha fatto un’esperienza full-immersion di identificazione con la passione di Cristo come e dove avviene oggi. Si riferiva a Fabrizio Gatti e al suo libro “Bilal. Viaggiare lavorare morire da clandestini” (BUR). Ve ne offriamo una citazione come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Cinquemila annegati. Il conto segreto del governo del Cairo. Soltanto per i morti egiziani. Molti Paesi africani non hanno neppure l’anagrafe. Dei loro figli che il mondo ha smarrito durante il viaggio non sapranno, non sapremo mai. E non c’è un solo monumento nazionale su cui ricordarli. I nostri capi di Stato ogni anno portano fiori agli altari della patria. Si fanno fotografare in commosso silenzio davanti alla tomba del Milite ignoto. È un dovere generoso rendere omaggio ai caduti in battaglia. Ma la nostra Costituzione è fondata sul lavoro. Non sulla guerra. Eppure a queste migliaia di migranti ignoti morti alla ricerca di un lavoro, o agli schiavi uccisi perché un lavoro l’avevano trovato, la Patria non ha ancora dedicato un solo altare. Il cimitero di Lampedusa è pieno di tombe anonime. Un numero al posto del nome e della foto sulla lapide. Basetrebbe sceglierne qualcuno. E portarne i resti a Roma, Bruxelles, Strasburgo, Parigi, Madrid, Berlino, Londra, Vienna, Berna. Le mete simboliche dell’altra faccia dell’Europa. Giusto per non dimenticare mai. (Fabrizio Gatti, Bilal. Viaggiare lavorare morire da clandestini).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 17 Aprile 2009ultima modifica: 2009-04-17T23:02:00+02:00da fraternidade
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