Giorno per giorno – 16 Aprile 2009

Carissimi,
“Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24, 36-39). E loro, era proprio quelle mani e quei piedi che non volevano vedere. E, meno ancora, potevano riandare a ciò che significavano, e a ciò che comportavano per loro. Sempre che volessero continuare ad essere dei suoi. Il che, probabilmente, in quel momento non li sfiorava nemmeno. Certo, volergli bene, gliene avevano voluto, nei limiti consentiti agli spauriti cuccioli degli uomini, naturalmente. Ovvero, finché non ci sia di mezzo la pelle. Quando un’amicizia diventa pericolosa, meglio darsela a gambe. Qui si usa dire: “Mato ou morro”. Il che non ha nulla di eroico, anche se per un curiosa omofonia, potrebbe sembrarlo. Non significa, infatti, in questo caso, “ammazzo o muoio”, ma, più prudentemente, “foresta o montagna”, verso cui fuggire, nelle situazioni di pericolo. Ed era ciò che avevano fatto loro. Loro, dunque, i suoi fidati, avevano appena finito di rinnegarlo, abbandonarlo, lasciarlo morire, ed ecco che Lui si presenta e invece di gridargli il suo: sciagurati!, gli fa: pace! Sono io. Ricominciamo, se volete, da capo. Se vi va bene, da giovedì scorso, quando vi ho lavato i piedi, perché imparaste ad essere gli ultimi e i servi di tutti. O da venerdì, che questi fori nelle mani e nei piedi significano, quando sono morto, con un gesto di amore e di perdono. È lì che nasce la chiesa, non come istituzione burocratica, regolamentata dal diritto canonico (che Gesù non poteva neppure sognare), con annessi e connessi di competenze, monopoli, privilegi, potere decisionale, spazi da spartirsi e controllare come proprietà personale, guerre pubbliche e private, competizioni, volontà di affermarsi a danno degli altri. Ai vertici delle diverse gerarchie, il che è persino normale, ma, spesso, grottescamente, anche negli ambienti che più si vogliono come spazio della testimonianza evangelica: ordini religiosi, movimenti ecclesiali, monasteri, conventi, parrocchie, sacristie. Il mondo sta andando in malora, la creazione in rovina, un terzo dell’umanità muore di fame, e noi ci si azzanna per un rito, una processione, un paramento, una precedenza, un inchino. Noi ce lo vediamo il buon Dio, là in alto, con una smorfia, ripetere come ai tempi del profeta Isaia: “Sapete, che vi dico? Mi fanno schifo i vostri riti e le vostre funzioni, le vostre feste, i vostri incensi e i vostri paramenti. Per favore, chiudetele le vostre chiese” (cf Is 1, 13 22). E uno è portato a pensare: sta bestemmiando. Solo che, essendo Lui Dio, è più facile che si stia bestemmiando noi. Già, qual è la logica che regge le nostre chiese? È quella dei fori nelle mani e nei piedi, che ogni volta il Crocifisso risorto si ostina a presentare?

Oggi è il Quinto Giorno della Festa di Pasqua. I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.3, 11-26; Salmo 8; Vangelo di Luca, cap.24, 35-48.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Le memorie di oggi sono tutte, a diverso titolo, memorie di piccoli. Ricordiamo, infatti, Iqbal Masih, martire per i diritti dell’infanzia, Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio, e Bernadette Soubirous, come un chicco di grano.

16 IQBAL MASIH.jpgIqbal Masih era nato nel 1983 a Muridke, in Pakistan, da una giovane e poverissima coppia cristiana, Bezak e Fredrem. All’eta di cinque anni venne ceduto dai genitori ad un certo Gullah, artigiano di tappeti, per far fronte a una situazione debitoria divenuta insostenibile. Fu l’inizio di una schiavitù, comune a milioni di altri bambini, che si vedono negato il diritto ad un’infanzia che lasci spazio alla serenità degli affetti familiari, dei giochi tra coetanei, degli studi che preparano un futuro migliore. Organizzato e controllato dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”, il lavoro al telaio di questi bambini durava fino a dodici ore al giorno, con ritmi massacranti. Per Iqbal, tutto questo durò per sei anni, fino a quando, nel 1993, quasi materializzazione di un sogno impossibile, all’entrata della fabbrica apparve Ehsan Ullah Khan, un avvocato attivista del Fronte di liberazione dal lavoro forzato. Quell’incontro segnò per il piccolo Iqbal una nuova vita. Cominciò a studiare (“diventerò avvocato per difendere i bambini-schiavi”), e a viaggiare, per denunciare lo sfruttamento suo e di miriadi di suoi coetanei. Presto, in Pakistan, cominciò a sentirsi l’effetto di queste denunce: decine di fabbriche di tappeti, che sfruttavano il lavoro minorile, furono infatti costrette a chiudere i battenti. Ma, cominciarono a piovere anche le minacce di morte, sul piccolo e sulla sua famiglia. Iqbal fece sapere: “Non ho più paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me”. E continuò imperturbabile. Poi la mattina di Pasqua, 16 aprile 1995, uscito di chiesa, il ragazzino fece ritorno a casa e, inforcata la bicicletta, prese a giocare spensierato con due cuginetti. Il suo assassino lo stava aspettando. Due colpi di fucile posero fine alle sue speranze e ai suoi sogni, ma non a quelle di milioni di altri bambini che, dalla sua vita e dalla sua morte, cominciarono a scorgere il profilarsi di una nuova aurora.

16 BENTO JOSÉ LABRE.jpgBenedetto Giuseppe Labre era nato ad Amettes, presso Arras, in Francia, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di una famiglia di piccoli agricoltori. Dopo gli studi presso la scuola del villaggio, chiese invano ai genitori il permesso di farsi trappista. Compiuti i diciotto anni, bussò alla porta della Certosa di S. Aldegonda, poi a quella dei cistercensi di Montagne, in Normandia, ma senza risultato. Riuscì a trattenersi qualche settimana nella certosa di Neuville e, per un periodo un po’ più lungo, nell’abbazia cistercense di Sept-Fons. Ma non faceva per lui. Sicché alla fine risolse che il suo monastero sarebbe stato la strada. E si recò a Roma. Una bisaccia in spalla, col Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario, un rosario e una croce era tutto ciò che questo vagabondo di Dio si portava appresso. Il suo pasto era sobrio: un pezzo di pane e qualche erba. Se riceveva dell’elemosina, subito la condivideva con gli altri poveri. Di notte si riparava sotto le fornici del Colosseo, di giorno pregava o leggeva le Scritture. Compì numerosi pellegrinaggi, ma tornava sempre a Roma. Lì, morì il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, che lo aveva raccolto per strada svenuto. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Monti

16 BERNADETTA SOUBIRUS.jpgBernadette Soubirous aveva solo quattordici anni, quando l’11 febbraio 1858, una fredda mattina di giovedì grasso, in cui era andata per legna, vide per la prima volta, alla grotta di Massabielle, quella che per molto tempo lei stessa chiamò semplicemente Quellacosa. La ragazzina, che era nata il 7 gennaio 1844, a Lourdes, nella famiglia del mugnaio François, sposato a Louise Casterot, era analfabeta e parlava solo dialetto e fu così che anche Quellacosa prese a parlarle in dialetto. Si sarebbe rifatta viva altre volte, in seguito e, dato che sembrava piacerle pregare, Bernadette si prestava volentieri a recitare con lei la corona. Per come andava il mondo, del resto, pareva non restasse che pregare. Poi vennero i giornali, le autorità, il vescovo, la pubblicità e i profittatori che spuntano sempre. Lei, la piccola non c’aveva mica il fisico, né, a dire il vero, neanche la voglia di tutto questo. Sicché il 7 luglio 1866, si presentò al convento di Saint-Gildard, delle Suore della Carità di Nevers, dicendo: “Vorrei solo nascondermi” e promettendosi: “Non vivrò un solo istante senza amare”. Che era poi quanto aveva appreso dalla sua Signora. Visse là 13 anni, senza che nessuno ne sapesse più niente, facendo la sacrestana, l’infermiera, e infine la malata. Di un male che non perdona. Della sua malattia dirà: “Sono macinata come un chicco di grano”. Morì trentacinquenne, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio.

Figure in modo diverso di una Chiesa di piccoli, umili, emarginati, poveri, perseguitati, senza-potere alcuno, le memorie di oggi. Di cui, coerentemente, non conserviamo discorsi, né testi, né lettere. Solo la nuda testimonianza. Scegliamo allora, nel congedarci, di offrirvi la parola di un prete, nonché mistico, che della contemplazione e della testimonianza del Dio povero ha fatto la sua ragione d’essere. Di Maurice Zundel vi proponiamo un brano tratto dal suo libro “Stupore e povertà” (Edizioni Mssaggero Padova). Che è per oggi il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Si capisce allora perché la prima beatitudine è quella della povertà: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”. La beatitudine della povertà è quella di Dio. Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. Dio è il più grande povero, che non possiede nulla. Qui salta agli occhi la differenza enorme tra la nozione comune di diviità […], quella della stragrande maggioranza dei cristiani e in genere di tutti i credenti che si dicono tali e che vedono in Dio il grande proprietario, il grande ricco che tutto può, che non può essere toccato da nulla, tanto è sicuro e difeso dalle sue ricchezze, che domina con tutta la sua potenza, che ci lascia cadere con parsimonia le briciole della sua tavola e ci domanda un conto feroce dell’uso che ne facciamo… la differenza, dicevo, tra questa divinità e il vero Dio. Il vero Dio, il Dio cristiano, il Dio che si rivela in Gesù Cristo, è un Dio che ha perso tutto eternamente. Per questo non può perdere niente. Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità. Tale Dio, così diverso dal Dio pensato dagli uomini, persino dai profeti dell’Antico Testamento, questo Dio del quale solo Cristo può testimoniare, perché è l’unico a vivere di lui in maniera unica, questo Dio che ci libera dall’incubo di un Dio che limita, di un Dio che minaccia, di un Dio che punisce, che svalorizza la nostra esistenza. Porre fine a tale concezione, significa porre fine a tutti i nostri terrori, a tutte le nostre schiavitù, a tutto ciò che fa di Dio una caricatura, un idolo, e dell’uomo uno schiavo, un mendico. (Maurice Zundel, Stupore e povertà).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Aprile 2009ultima modifica: 2009-04-16T23:28:00+02:00da fraternidade
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