Giorno per giorno – 15 Aprile 2009

Carissimi,
“Ed egli disse loro: Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino? Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni? Domandò: Che cosa? Gli risposero: Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso” (Lc 24, 15-20). Si fermarono, col volto triste. Capita ancora, quando ogni (o anche solo qualche) sogno, progetto, sforzo, sembra finire per ricondursi al segno dello scacco subito. Ci scriveva giusto ieri, piuttosto sconsolato, un amico prete: “Quando ho scelto di fare il prete operaio fu perché contestavo l’impostazione clerico-centrica della stanca e ripetitiva pastorale parrocchiale. E si può “fare il prete” in cento modi, diversi dal parroco. Un bravo monaco-presbitero non deve andare a fare il parroco solo perché mancano preti nelle parrocchie. E se ci va, lo farà solo nella speranza di riuscire a rivoltare l’impostazione: i laici al centro e il prete defilato, come uno dei tanti, con il suo mandato ministeriale specifico: eucaristia e riconciliazione. Stop. Qui invece io continuo l’accanimento terapeutico in una pastorale che non riesco a cambiare. Come dico spesso: cerco di offrire qualità nella “risposta pastorale”, ma la rivoluzione sarà quando cambierà la “domanda pastorale” della gente. Ci lasciano dire. E poi tornano a richiedere le stesse cose di 40 anni fa, e a noi tocca fare di tutto. Con qualche rara eccezione di laici, pochissimi, a cui ho vergogna di chiedere di tutto, perché la massa resta inerte. […] E non abbiamo il coraggio di dire NO, BASTA. Noi siamo buoni; si dice che dobbiamo lasciare a Dio il giudizio, che occorre seminare poi non si sa mai ecc. E abbiamo paura della chiesa di minoranza, non ghetto ovviamente, ma di scelta, di opzione, di percorsi e itinerari responsabilizzanti. Io, monaco del lavoro, non era così che sognavo di fare il prete. Ci ho provato. Ma sto facendo solo il rianimatore per tenere in vita una chiesa vecchia, obsoleta, tradizionalista, pre-conciliare. E me ne sento responsabile e correo”. Qui ce n’è davvero per tutti. E Lui sembra essere in ritardo. Non si è ancora affiancato silenziosamente ai suoi, sulla via per Emmaus. Eppure, scuro, è già scuro.

Questo è il Quarto Giorno della Festa di Pasqua. I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 3, 1-11; Salmo 105; Vangelo di Luca, cap.24, 13-35.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, lungo i cammini più diversi, perseguono un mondo di giustizia, fraternità e pace.

Il calendario ci porta la memoria di Damiano di Molokai, prete, missionario e martire della carità.

15_DAMIÃO_DE_MOLOKAI.JPGGiuseppe de Veuster era nato a Tremeloo, in Belgio, il 3 gennaio 1841 e nel 1860 era entrato nella congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, prendendo il nome di Damiano. Ancora seminarista, quando nel 1863 un fratello ammalato non potè partire missionario, chiese al superiore di poterlo sostituire. S’imbarcò il 2 novembre dello stesso anno, raggiungendo Honolulu il 19 marzo 1864, dove qualche mese dopo ricevette la sua ordinazione a presbitero. Per nove anni evangelizzò la popolazione di Puno e Kohala. Nel frattempo, il rapido diffondersi di un’epidemia di lebbra, indusse le autorità a segregare quanti erano colpiti dalla malattia. Nel 1866 il primo gruppo di infetti fu inviato a Kalaupapa, sull’isola di Molokai. Quivi abbandonati, senza nessuna assistenza né possibilità di cura, i poveretti sopravvivevano finché potevano in condizioni di degrado fisico e morale. Nel 1873, il Vicario apostolico dell’arcipelago lanciò un appello perché un prete si recasse sull’isola a a prestare assistenza ai lebbrosi di Molokai, tra i quali c’erano anche alcuni cattolici. Padre Damiano si offrì. Lì si ingegnò a fare di tutto: carpentiere, falegname, infermiere, e prete naturalmente. Si abituò a vivere con i lebbrosi, come loro, senza cautele o distinzioni capaci di creare barriere tra lui e la sua gente. Nel 1884, si scoprì malato di lebbra. La notizia che padre Damiano era lebbroso commosse la cerchia dei suoi estimatori: furono molti coloro che si offrirono di lavorare con lui, religiosi e religiose, altre persone che si mettevano in cammino, per fare la loro parte. Il 15 aprile 1889, dopo sedici anni d’apostolato tra i lebbrosi di Molokai, all’età di 48 anni, ormai senza più forze, Damiano si congedava dai suoi figli.

Capita che non ci s’abbia sottomano nulla direttamente legato alla memoria o al Vangelo del giorno, e poi l’occhio ti cade su un vecchio articolo, come questo di Timothy Radcliffe, dal titolo “Chiamati ad irradiare gioia”, apparso nella rivista “Testimoni” (Centro Editoriale Dehoniano), n. 18, 31 ottobre 2002, che richiama da vicino gli accenti della lettera del nostro amico prete e, nello stesso tempo, lascia intravvedere qualche squarcio d’azzurro. Che ci voleva, in una giornata grigia e piovosa come questa. Persino qui da noi. Noi, nel congedarci, ve ne proponiamo un brano come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Un’altra area nella quale possiamo facilmente incontrare l’insuccesso e lo scoraggiamento è quella della creazione della comunità parrocchiale. Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, un sacerdote mi espresse la sua frustrazione perché troppo spesso la parrocchia era vista più come una stazione di servizio che non come una genuina comunità. La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa per una messa fugace anziché riunirsi attorno all’altare come popolo di Dio. Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. Tutto questo non sorprende. Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti nella lista dei luoghi di appartenenza, dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. Tutto questo può insinuare nel sacerdote l’idea del fallimento, di non essere riuscito a radunare la gente attorno all’altare e di costruire una comunità eucaristica. Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. Ogni comunità cristiana, sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della “Legio Mariae”, è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, quella del Regno. Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere l’errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia. (Timothy Radcliffe, Chiamati ad irradiare gioia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Aprile 2009ultima modifica: 2009-04-15T23:27:00+02:00da fraternidade
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