Giorno per giorno – 12 Maggio 2022

Carissimi,
“In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno” (Gv 13, 16-18). Per sapere di cosa Gesù stia parlando, dobbiamo leggere i versetti immediatamente precedenti, che specificano ciò che è avvenuto nel contesto dell’ultima cena. Dice dunque Gesù: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13, 14-15). Il Maestro che egli è ci insegna con l’esempio come è il Signore, cioè lo stesso Dio, che nessuno fino ad allora aveva mai visto e che tutti si immaginavano (e spesso continuiamo a immaginarci) ben diversamente. Quella proclamata qui da Gesù è la definitiva beatitudine destinata a chi, sapute queste cose – il come è di Dio: lo stare come servo in mezzo a noi -, si dispone a metterle in pratica, imitandolo. Impresa davvero difficile, più eroica di qualsiasi atto di eroismo, portati come siamo a concepire e ad inseguire la grandezza nella sfera del dominio e del successo. Gesù, per altro, sa di che pasta siamo fatti e che, pur mangiando il pane con lui, o meglio, il Pane che è Lui, ripetutamente a Lui ci ribelliamo, negandoci al servizio nei confronti dei fratelli a cui ci ha designato. Tuttavia non desiste dal richiamarci a ciò, né lo potrebbe, dato che ci ama, ha più fede in noi di quanta noi si riesca ad averne in Lui, sa che, con la complicità dello Spirito, finiremo per cedergli.

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta le memorie di Rabbi Meir e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele; e di Irena Sendler, “giusta tra le nazioni”.

Discepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo, Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro. Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”. Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore, verso il 175 d.C. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

Irena Krzyzanowski era nata a Otwock, una cittadina a circa venti chilometri da Varsavia (Polonia), il 15 febbraio 1910 da Janina e Stanislaw Krzyzanowski, un medico, che fu tra i primi membri del Partito socialista polacco, e uno dei pochi medici cattolici che, a quel tempo, accettarono di prestare assistenza alle famiglie povere della locale comunità ebraica. Morirà nel febbraio 1917, di tifo, contratto mentre assisteva i pazienti, che i suoi colleghi avevano rifiutato di curare. Fu per l’educazione ricevuta dai genitori che, già da bambina, Irena frequentò ed ebbe modo di conoscere e di simpatizzare con i suoi piccoli compatrioti ebrei. Terminati gli studi, sposò Mieczyslaw Sendler (con il cui cognome sarebbe stata conosciuta in seguito, nonostante il fallimento del matrimonio, subito dopo la guerra). All’epoca dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939, Irena lavorava come infermiera per i servizi sociali del comune di Varsavia. Quando si scatenò la perscuzione nei confronti degli ebrei, decise da subito che non poteva restare indifferente e che doveva darsi da fare. Nei mesi che seguirono, lei ed altri volontari fabbricarono migliaia di documenti falsi per aiutare le famiglie ebree a nascondersi. Nel dicembre del 1942, il movimento clandestino Żegota (Consiglio per l’aiuto agli ebrei), da poco creato, la nominò, con il nome di battaglia di Jolanta, a dirigere la sezione che si occupava del salvataggio dei bambini. Come impiegata dei servizi sociali di Varsavia aveva diritto di accesso al ghetto della città. Fu così che si ingegnò in mille modi per nascondere e portar fuori dal ghetto quanti più bambini possibile, affidandoli poi, con documenti falsi, presso famiglie fidate nelle campagne circostanti, o presso conventi e istituti religiosi. Di ognuno di essi annotò accuratamente in codice i veri nomi accanto a quelli falsi, collocando poi le liste in contenitori di vetro, che nascose sotto terra. Sperava in tal modo di potere riunire i bambini, un giorno, ai genitori o, almeno, a qualche membro delle loro famiglie. Il 20 ottobre del 1943 Jolanta fu scoperta e arrestata dalla Gestapo. Condotta nella famigerata prigione di Pawiak, fu ripetutamente torturata. Le spezzarono i piedi e le gambe, ma non tradì l’organizzazione, né rivelò gli indirizzi dei bambini nascosti. Condannata a morte, fu salvata all’ultimo minuto, quando membri della Żegota riuscirono a corrompere le guardie che l’avevano in custodia e sottrarla così all’esecuzione. Dopo la guerra visse un’esistenza normale, tornò al suo vecchio lavoro, si sposò nuovamente, ebbe tre figli, restando in ogni caso in contatto con alcuni dei bambini che aveva salvato. Nel 1965 ricevette il titolo di Giusta tra le nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme. In una lettera al Senato del suo Paese, che, più tardi, le attribuì un premio, scrisse: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto e con l’aiuto di tutti i meravigliosi messaggeri che oggi non ci sono più, è ciò che giustifica la mia esistenza sulla terra più di ogni possibile onorificenza”. In un’altra occasione ebbe a dichiarare: “Avrei potuto fare di più. Questo rammarico mi seguirà fin o alla morte”. Aveva salvato solo 2500 bambini. Era stata torturata e aveva rischiato solo la morte. Irena Sandler è morta a Varsavia il 12 maggio 2008.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.13, 13-25; Salmo 89; Vangelo di Giovanni, cap.13, 16-20.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

“La libertà non promette nessuna soddisfazione immediata dei bisogni, nessuna felicità, neanche la sicurezza personale. Caino era libero di scegliere tra il bene e il male e scelse il male”. Ed è vero per ogni tempo e situazione. Ágnes Heller, a cui si deve questa citazione, compirebbe oggi novantatre anni. Nata nel 1929 in Ungheria, ebrea scampata alla persecuzione antisemita durante la guerra, fu allieva e amica di Gyorgy Lukács, poi voce del dissenso rispetto al sistema sovietico, allontanata dall’insegnamento, quindi esule all’estero insieme al marito, il filosofo Ferenc Fehér, prima in Australia poi in America. Prendendo spunto da questa ricorrenza, scegliamo di congedarci, offrendovi una sua citazione, tratta dal testo che la filosofa ungherese consegnò all’European Forum Alpbach due giorni prima della morte, avvenuta il 19 luglio 2019. Lo troviamo, sotto il titolo “Liberi ma in catene”, nel sito del Corriere ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite inizia con la frase: “Tutti gli esseri umani nascono liberi”, e quest’affermazione è stata sottoscritta da tutte le nazioni del globo, comprese le dittature. Il mondo intero è diventato moderno, non solo in senso normativo, ma anche in senso empirico, poiché condivide le tre logiche della modernità. Le prime due (distribuzione tramite il mercato, scienza e tecnologia moderne) si sviluppano spontaneamente, ma non la terza. La terza logica della modernità offre la possibilità a un popolo, uno Stato, un impero, una città, di scegliere le proprie istituzioni politiche, tra le quali anche forme di governo che intervengono ogni qualvolta si profila la minaccia che la prima o la seconda logica della modernità possa sottrarsi a ogni controllo. I rapporti di mercato potrebbero alterarsi drasticamente fino a produrre povertà, fame e carestia su scala mondiale, e di conseguenza anche ribellioni, genocidi e guerre su scala mondiale. La seconda logica (sviluppo della scienza e della tecnologia) potrebbe sfuggire di mano, creando tecnologie che avvelenano i nostri fiumi, l’aria, l’ambiente e la vita in genere, oppure costruendo macchine da guerra capaci di annientare gli esseri umani e la natura. La sicurezza della nostra generazione e della prossima è affidata alle nostre scelte politiche: dipende dalla terza logica. La nostra sicurezza e la sicurezza della prossima generazione dipendono dalla nostra libertà, o meglio, dall’uso che noi facciamo della nostra libertà. La modernità si basa sulla libertà eppure, lo ripeto: la libertà è un fondamento che non fonda. In altre parole, in gran parte del mondo il paradosso di Rousseau è tuttora valido: tutti gli uomini nascono liberi eppure essi sono quasi dappertutto in catene. Sono liberi di assoggettarsi a dittature, tirannie, oligarchie, regimi totalitari oppure diventare cittadini di democrazie liberali. Tuttavia, proprio come i regimi totalitari possono crollare, così pure le democrazie liberali. Il Ventesimo secolo ci ha fornito svariati esempi. Si presuppone sempre che il mondo non andrà avanti come al solito, che la pace non durerà per sempre, che le nubi minacciose all’orizzonte delle democrazie liberali non spariranno come per incanto a meno che gli abitanti di quegli Stati acquistino la consapevolezza che la sicurezza di un mondo, di una società e delle generazioni future dipende dalla libertà, e più precisamente dall’utilizzo della possibilità di libertà, dalla narrativa della libertà politica, ma anche dall’assumersi consciamente la responsabilità di tutelarla. (Ágnes Heller, Liberi ma in catene).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2022ultima modifica: 2022-05-12T22:43:38+02:00da fraternidade
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