Giorno per giorno – 16 Aprile 2021

Carissimi,
“Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6, 5). Ci fosse stato lì un qualche talebano cattolico, di scuola teocon, gli avrebbe sparato addosso il suo: “Ma questo è ossessionato dall’economia, si occupi piuttosto di dottrina!”. Invece Gesù, di dottrina proprio non sapeva che farsene, dato che ci pensavano già scribi e dottori della Legge. Lui si preoccupava della fame della gente. E cercava il modo di porvi rimedio, vedendo di stimolare in qualche modo l’iniziativa dei suoi. E, difatti, forse per una qualche illuminazione, Andrea gli fa: “C’è qui un ragazzino che ha cinque pani d’orzo e due pesci. Già, ma che cosa è questo per tanta gente?” (v. 9). Quel ragazzino, disposto a rinunciare al suo di che vivere di quel giorno, era già immagine di Gesù, pronto a darsi tutto, non, come succede, in vista di un qualche vantaggio elettorale (fuggirà infatti, appena avrà sentore che lo cercano per farlo re), ma per saziare la fame della moltitudine (questa è la sua dottrina, materialista, anzi spirituale, quanto basta!). Studiandosi di non farne un gesto episodico, ma qualcosa di più profondo che cambi le relazioni tra gli uomini, addita la soluzione nella disponibilità di quel ragazzo a mettere in comune ciò che aveva. Condividere ciò che abbiamo, il poco che abbiamo, il poco che siamo, da poveri che siamo, ci introduce già nella beatitudine del Regno, inaugurato dal dono di sé di Gesù, che ai poveri è destinato. In questa condivisione, i poveri ci insegnano che ciò che sembrava poco, diventa molto, e addirittura ne avanza. Questa condivisione, poi, è il segno della nostra personale risurrezione.

Le memorie di oggi sono tutte, a diverso titolo, memorie di piccoli. Ricordiamo, infatti, Iqbal Masih, martire per i diritti dell’infanzia, Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio, e Bernadette Soubirous, come un chicco di grano.

Iqbal Masih era nato nel 1983 a Muridke, in Pakistan, da una giovane e poverissima coppia cristiana, Bezak e Fredrem. All’eta di cinque anni venne ceduto dai genitori ad un certo Gullah, artigiano di tappeti, per far fronte a una situazione debitoria divenuta insostenibile. Fu l’inizio di una schiavitù, comune a milioni di altri bambini, che si vedono negato il diritto ad un’infanzia che lasci spazio alla serenità degli affetti familiari, dei giochi tra coetanei, degli studi che preparano un futuro migliore. Organizzato e controllato dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”, il lavoro al telaio di questi bambini durava fino a dodici ore al giorno, con ritmi massacranti. Per Iqbal, tutto questo durò per sei anni, fino a quando, nel 1993, quasi materializzazione di un sogno impossibile, all’entrata della fabbrica apparve Ehsan Ullah Khan, un avvocato attivista del Fronte di liberazione dal lavoro forzato. Quell’incontro segnò per il piccolo Iqbal una nuova vita. Cominciò a studiare (“diventerò avvocato per difendere i bambini-schiavi”), e a viaggiare, per denunciare lo sfruttamento suo e di miriadi di suoi coetanei. Presto, in Pakistan, cominciò a sentirsi l’effetto di queste denunce: decine di fabbriche di tappeti, che sfruttavano il lavoro minorile, furono infatti costrette a chiudere i battenti. Ma, cominciarono a piovere anche le minacce di morte, sul piccolo e sulla sua famiglia. Iqbal fece sapere: “Non ho più paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me”. E continuò imperturbabile. Poi la mattina di Pasqua, 16 aprile 1995, uscito di chiesa, il ragazzino fece ritorno a casa e, inforcata la bicicletta, prese a giocare spensierato con due cuginetti. Il suo assassino lo stava aspettando. Due colpi di fucile posero fine alle sue speranze e ai suoi sogni, ma non a quelle di milioni di altri bambini che, dalla sua vita e dalla sua morte, cominciarono a scorgere il profilarsi di una nuova aurora.

Benedetto Giuseppe Labre era nato ad Amettes, presso Arras, in Francia, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di una famiglia di piccoli agricoltori. Dopo gli studi presso la scuola del villaggio, chiese invano ai genitori il permesso di farsi trappista. Compiuti i diciotto anni, bussò alla porta della Certosa di S. Aldegonda, poi a quella dei cistercensi di Montagne, in Normandia, ma senza risultato. Riuscì a trattenersi qualche settimana nella certosa di Neuville e, per un periodo un po’ più lungo, nell’abbazia cistercense di Sept-Fons. Ma non faceva per lui. Sicché alla fine risolse che il suo monastero sarebbe stato la strada. E si recò a Roma. Una bisaccia in spalla, col Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario, un rosario e una croce era tutto ciò che questo vagabondo di Dio si portava appresso. Il suo pasto era sobrio: un pezzo di pane e qualche erba. Se riceveva dell’elemosina, subito la condivideva con gli altri poveri. Di notte si riparava sotto le fornici del Colosseo, di giorno pregava o leggeva le Scritture. Compì numerosi pellegrinaggi, ma tornava sempre a Roma. Lì, morì il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, che lo aveva raccolto per strada svenuto. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Monti

Bernadette Soubirous aveva solo quattordici anni, quando l’11 febbraio 1858, una fredda mattina di giovedì grasso, in cui era andata per legna, vide per la prima volta, alla grotta di Massabielle, quella che per molto tempo lei stessa chiamò semplicemente Quellacosa. La ragazzina, che era nata il 7 gennaio 1844, a Lourdes, nella famiglia del mugnaio François, sposato a Louise Casterot, era analfabeta e parlava solo dialetto e fu così che anche Quellacosa prese a parlarle in dialetto. Si sarebbe rifatta viva altre volte, in seguito e, dato che sembrava piacerle pregare, Bernadette si prestava volentieri a recitare con lei la corona. Per come andava il mondo, del resto, pareva non restasse che pregare. Poi vennero i giornali, le autorità, il vescovo, la pubblicità e i profittatori che spuntano sempre. Lei, la piccola non c’aveva mica il fisico, né, a dire il vero, neanche la voglia di tutto questo. Sicché il 7 luglio 1866, si presentò al convento di Saint-Gildard, delle Suore della Carità di Nevers, dicendo: “Vorrei solo nascondermi” e promettendosi: “Non vivrò un solo istante senza amare”. Che era poi quanto aveva appreso dalla sua Signora. Visse là 13 anni, senza che nessuno ne sapesse più niente, facendo la sacrestana, l’infermiera, e infine la malata. Di un male che non perdona. Della sua malattia dirà: “Sono macinata come un chicco di grano”. Morì trentacinquenne, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.5, 34-42; Salmo 27; Vangelo di Giovanni, cap.6, 1-15.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Oggi è il compleanno di Joseph Ratzinger, teologo del Concilio Vaticano II e vescovo emerito di Roma, che fu papa col nome di Benedetto XVI. Scegliamo così di congedarci, offrendovi in lettura un brano tratto dal suo “Introduzione al Cristianesimo” (Queriniana). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La decisione fondamentale per il cristianesimo, la sua accettazione senza riserve comporta lo scardinamento della posizione accentrata sull’ “io”, e al contempo l’annessione all’esistenza di Gesù Cristo, che è completamente dedita al tutto. La stessa cosa viene espressa dal programma che invita l’uomo a “seguire la croce”, che non indica affatto una devozione privata, ma è invece polarizzato sull’idea fondamentale che l’uomo, lasciandosi alle spalle le posizioni arroccate tranquillamente sul proprio “io”, esca da se stesso, per seguire il Crocifisso ed esistere per gli altri appunto incrociando e tagliando la strada al proprio tirannico “io”. In via generale, sono precisamente le grandi figure della storia salvifica, che rappresentano al contempo i più alti modelli del culto cristiano, quelle che meglio incarnano le forme espressive di questo principio del “pro”. Pensiamo a esempio all’immagine dell’ “esodo”, che da Abramo in poi e spingendosi ben oltre il classico esodo dall’Egitto narratoci dalla storia sacra, rimane perennemente il pensiero fondamentale all’insegna del quale si svolge l’esistenza del popolo di Dio e degli appartenenti ad esso: ognuno di essi è chiamato ad intraprendere incessantemente l’esodo del superamento di sé. La medesima idea riecheggia nell’immagine della pasqua, nella quale la fede cristiana ha racchiuso il mistero che abbina la croce e la risurrezione di Gesù, formulandolo col pensiero del “passaggio” descrittoci a vividi colori dall’Antico Testamento. L’evangelista Giovanni ha condensato il tutto in un’immagine mutuata da un fenomeno naturale. Con essa, l’orizzonte si allarga alto sopra la sfera antopologica e storico-salvifica, raggiungendo dimensioni cosmiche: ciò che qui ci vien presentato come struttura portante della vita cristiana, rappresenta in fondo già la nota distintiva della creazione stessa. “In verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Già nella sfera cosmica vige la legge che solo attraverso la morte, attraverso la perdita di se stessi, scaturisce la vita. Ora, ciò che si delinea nella creazione, si attua in pieno nel’uomo e infine in quell’ uomo esemplare che è Gesù Cristo: accollandosi la sorte del granello di frumento, sopportando il travaglio di essere offerto in sacrificio, lasciandosi squarciare e abbandonandosi perdutamente al Padre, egli inaugura la vera vita. (Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Aprile 2021ultima modifica: 2021-04-16T22:00:27+02:00da fraternidade
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