Giorno per giorno – 05 Novembre 2020

Carissimi,
“Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15, 1-2). I verbi sono all’imperfetto. Significa che non accadde solo una volta, ma era una cosa abituale. Da una parte “tutti” i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù, incuriositi, per ascoltarlo. Dall’altra, i più religiosi e i loro intellettuali organici mormoravano per il fatto che Gesù si trovasse perfettamente a suo agio in simile compagnia. Non c’è più religione, devono aver certo pensato, e mugugnavano contro Dio. Stamattina, ci dicevamo che questa sembra una fotografia di quel che accade anche oggi e, forse, in ogni tempo. Quando, solo qualche volta, purtroppo, la Chiesa si mostra più attenta a quanti sono considerati peccatori, rispetto ai suoi habitués, ecco che subito si solleva il mugugno di qualcuno di questi e di alcune loro eminenze “grigie” nel senso di tristi, che non sanno [più] nulla della gioia dell’evangelo, perduti come sono a contemplarsi nelle loro pratiche religiose o a spendersi nello studio mortifero di leggi e leggine accumulatesi nei secoli. “Allora Gesù disse loro (ai mugugnanti) questa parabola: Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?” (Lc 15, 3-4). Non la racconta ai peccatori che già l’ascoltano, la racconta ai presunti giusti, che ascoltano solo se stessi. E che rappresentano la vera pecora perduta, lontani da Dio più di tutti. Il quale Dio può lasciare tranquillamente nel deserto i peccatori (già giustificati per grazia), per andare alla ricerca dei presunti giusti che alla grazia si sottraggono. Trovati i quali (anche noi?), se li carica tutto felice in spalla e li riporta a casa, facendo una gran festa con gli amici e restituendoli così, anche loro così tristi abitualmente, alla gioia della compagnia di Dio.

Oggi il calendario ci porta le memorie di Bernhard Lichtenberg, presbitero e martire del totalitarismo nazista; del Card. Jules-Géraud Saliège, pastore e “giusto tra le nazioni”, e di Giorgio La Pira, il sindaco santo.

Bernhard Lichtenberg era nato, il 3 dicembre 1875, a Ohlau, cittadina della Bassa Slesia, allora in Prussia (oggi Oława, in Polonia). Desideroso di seguire la vocazione sacerdotale, terminata la scuola superiore, entrò in seminario e, dopo gli studi teologici, fu ordinato prete, nel 1899. Inviato a svolgere il suo ministero a Charlottenburg, un quartiere di Berlino, trovò modo di impegnarsi anche nel partito cattolico. Durante la prima guerra mondiale fu cappellano militare e questa esperienza lo portò ad integrare, nell’immediato dopoguerra, l’Associazione per la pace dei cattolici tedeschi. Dal 1920 al 1930 fu membro del parlamento regionale. Nel 1932 Lichtenberg fu chiamato a ricoprire l’incarico di rettore della Cattedrale di Sant’Edvige. Nel 1933, quando il regime nazista assunse il potere in Germania, egli si fece portavoce delle istanze avanzate dalla comunità ebraica di Berlino. In netto contrasto con la maggior parte delle istituzioni politiche e sociali del suo tempo, riteneva che fosse dovere vincolante del prete cattolico intervenire in soccorso di chiunque si trovasse in pericolo di vita, indipendentemente dal suo credo religioso. La sua opera di sensibilizzazione nei confronti della popolazione ebraica assunse un carattere più istituzionale nell’agosto 1938, quando Lichtenberg venne messo a capo dell’Ufficio di Soccorso dell’episcopato di Berlino, che si dedicò, tra l’altro, ad organizzare l’emigrazione di molte persone di origine ebraica. Quanto accadde nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, la famosa Kristallnacht, passata sotto silenzio da tutte le Chiese, vide invece la denuncia puntuale, chiara e pubblica di Lichtenberg dal pulpito di Sant’Edvige. Da quella sera e fino al giorno del suo arresto, il prete continuò a predicare impavido a favore degli ebrei e delle altre vittime del regime, denunciandone le deportazioni e le misure volte a criminalizzare chi si accingesse ad aiutarli. Il 23 ottobre 1941, in seguito ad una perquisizione della sua canonica e del sequestro di alcuni appunti per l’omelia della domenica successiva, fu arrestato sotto l’accusa di attività sovversiva. Durante l’interrogatorio, Lichtenberg rifiutò di ritrattare quanto aveva scritto. Affermò con chiarezza che la visione dell’uomo e della storia presente nell’ideologia nazista era inconciliabile con il cristianesimo che egli, come prete cattolico, era tenuto ad opporvisi con tutte le forze. Nel maggio 1942, il tribunale distrettuale di Berlino lo condannò a due anni di reclusione. Rinchiuso nel carcere di Tegel, rifiutò di sottoscrivere la proposta della Gestapo che concedeva la libertà in cambio del giuramento di astenersi dal predicare per tutta la durata della guerra. Il servizio di sicurezza nazista ordinò allora il suo internamento nel campo di concrentramento di Dachau. Nel corso della deportazione, sfiancato dai tormenti sofferti, morì, presso la cittadina di Hof, il 5 novembre 1943. Aveva sessantotto anni. È stato beatificato da Giovanni Paolo II, il 23 giugno 1996, e dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, il 7 luglio 2004.

Jules-Géraud Saliège era nato a Mauriac il 24 febbraio 1870. Ordinato prete nel 1895, divenne, due anni più tardi, rettore del Seminario Maggiore di Saint-Flour, dove resterà fino al 1914, quando partì per il fronte come cappellano militare. Dopo la Guerra, nell’ottobre 1925 fu nominato vescovo di Gap e, nel dicembre 1928, arcivescovo di Tolosa. Il 12 aprile 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Hitler, avvenuta nel gennaio dello stesso anno, mons. Saliège, prese pubblicamente le difese degli ebrei minacciati dall’avanzata del nazismo. Il 19 febbraio 1939 ricordò la condanna, da parte della Chiesa, del razzismo, un errore che PioXI, nella Lettera Enciclica Mit Brennender Sorge aveva dichiarato fondamentalmente contrario agli insegnamenti del Vangelo. Schierato inizialmente, come la quasi totalità dei vescovi francesi, a favore del governo collaborazionista del maresciallo Petain, se ne allontanò decisamente a partire dal marzo 1941, condannandone i principi totalitari e la deriva antisemita. Parrocchie e istituzioni religiose furono da allora sollecitati a ospitare e nascondere gli ebrei perseguitati, a falsificare documenti di identità e redigere falsi certificati di battesimo, a organizzare la fuga dei ricercati in Spagna attraverso i sentieri dei Pirenei. Il 23 agosto 1942 con una Lettera Pastorale che recava la perentoria postilla: “Da leggersi in tutte le chiese senza commenti”, il card. Saliège condannava una volta di più gli orrori a cui si doveva assistere. Sfuggito, il 9 giugno 1944, all’arresto e alla deportazione, per le precarie condizioni di salute che ne impedirono il trasporto, dopo la liberazione fu acclamato come “primo resistente della città” nella piazza del Campidoglio. Ricevette la Croce dell’ “Ordine della Liberazione”. Il Memoriale Yad Vashem gli diede il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni” (Hasid Ummot Ha-‘Olam), per le molte vite di ebrei che salvò. Creato cardinale il 18 febbraio 1956, morì il 5 novembre dello stesso anno.

Giorgio La Pira nacque il 9 gennaio 1904 a Pozzallo, in Sicilia, da Gaetano La Pira e Angela Occhipinti, primogenito di sei figli. Giovane studente di Diritto, all’università di Messina, visitava le vecchie baracche della città, portando cibo, medicine, vestiti. Laureatosi a pieni voti, nel 1926, dopo un corso di specializzazione, in Austria, in Diritto Romano, fu chiamato a insegnare all’Università di Firenze. Nel 1928 divenne membro dell’Istituto secolare dei Missionari della Regalità di Cristo, pronunciando i voti religiosi. Nel capoluogo toscano conobbe presto e divenne amico di mons. Elia Della Costa e di don Giulio Facibeni. L’amicizia che contemporanemente instaurò con mons. Montini lo portò a incontrare don Raffaele Bensi, che scelse come suo direttore spirituale. In quegli anni continuò e approfondì il suo impegno sociale, divenendo, durante la dittatura fascista, un coraggioso difensore dei diritti della persona umana. Nell’immediato dopoguerra, eletto Deputato alla Costituente, contribuì, con Moro, Dossetti, Basso, Calamandrei, Togliatti, alla formulazione dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica, affermando le libertà civili e religiose, il diritto al lavoro, il valore della persona umana. Eletto nel 1951 sindaco di Firenze, avviò una politica, le cui priorità erano l’affermazione del diritto alla salute, alla casa, al lavoro e l’instancabile ricerca del dialogo, della pace e dell’amicizia tra i popoli. Abitando, finché la salute glielo permise, in una cella del convento domenicano di san Marco, lavorò senza sosta per abbattere i muri della sfiducia, dell’odio, dell’inimicizia. Incontrò i maggiori leader mondiali dell’epoca, parlando ai cuori e alle menti di tutti, durante le crisi più difficili degli anni 50 e 60. Morì il 5 novembre 1977.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Filippesi, cap.3, 3-8; Salmo 105; Vangelo di Luca, cap.15, 1-10.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Ed è tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla memoria di Giorgio La Pira, vi proponiamo il brano di un suo articolo, apparso su “L’Osservatore Romano” del 26-27 dicembre 1939. Lo troviamo in rete ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Ogni creatura umana, come, del resto ogni altra creatura, ha nella vita un compito da svolgere. È un operaio; e Dio stesso gli assegna l’opera da fare. Ecco il lato più bello – seppure faticoso – della vita: fare! Fare, cioè portare a maturazione il seme di amore e di luce che Dio ha deposto nel cuore e nella mente di ciascuno! La giustizia non sia solamente nel non ledere il fratello col quale sono solidale: sta soprattutto nello svolgere positivamente la mia opera: nello sviluppo della mia personalità interiore; nell’edificazione della mia casa! Ecco l’aspetto virile e costruttivo; sono un collaboratore nella edificazione del Corpo di Cristo; anche io, nella proporzione dei miei doni, un edificatore: un libero costruttore della città di Dio. L’amore si manifesta! Costruendo: portando nelle cose della mia fatica l’ideale di luce e di carità che brilla nel fondo dell’anima mia. Noi abbiamo certamente nel cuore questa luce; ci sollecita amorosamente; ci spinge all’opera: e l’opera è bella, anche se faticosa; perché è opera alla quale pone mano cielo e terra. Perché è frutto di una misteriosa collaborazione: quella di Dio e dell’uomo! “Farete le opere che faccio”. Ecco, dunque, un altro panorama di ampio respiro: non lavoro per uccidere o per sopraffare il mio fratello; lavoro per lui quando lavoro per edificare la mia vera casa: quando lavoro illuminato dalla luce della ragione e, più da quella della fede; apro il solco della mia terra; ma il seme che semino darà grano per tanti; darà grano per tutti! Lavoro libero, lavoro di amore, lavoro che è bagnato dal sudore e impreziosito dal sacrificio. Cosa è la santità? Questo lavoro che mentre disfà – in apparenza – le forze di chi fatica, prepara la bellezza di un’opera che non sarà perduta mai. Il Paradiso possiede per sempre queste creazioni buone e luminose dell’uomo: le custodisce tutte; vorrei dire che esse sono parti essenziali della città di Dio: perché la luce di Dio si riflette sopra questi edifici umani fatti di armonia e di bontà. (Giorgio La Pira, in L’Ossevatore Romano, 26-27 dicembre 1939).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Novembre 2020ultima modifica: 2020-11-05T22:15:22+01:00da fraternidade
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