Giorno per giorno – 01 Novembre 2020

Carissimi,
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3. 10). Molto prima che esistesse la Congregazione delle Cause dei Santi, Gesù aveva già provveduto di suo a compilare le caratteristiche che, senza bisogno di miracoli, devono contraddistinguere, se non proprio i santi, almeno coloro che lui considera beati. E, anticipando in qualche modo lo slogan del frettoloso “santo subito”, anche Lui ci ha fatto sapere chi siano i beati fin d’ora, ancora in vita, senza medaglie particolari guadagnate sul campo, ma solo per un’insindacabile decisione di Dio: i poveri e i perseguitati per causa della giustizia. Tutte le otto beatitudini proclamate da Gesù in apertura del Sermone della montagna, sono prima di tutto, in realtà, la fotografia di Gesù, e perciò del volto umanamente visibile di Dio, suo Padre. La prima e l’ultima ne sono la sintesi, rappresentano il luogo per eccellenza di Dio (il quale, nell’ebraismo, è detto anche “Luogo”, macom). Egli, in Gesù, si è fatto povero, il più povero di tutti, e per il sogno di una società giusta e fraterna, è da sempre e ovunque perseguitato. Le altre beatitudini vedranno il loro compimento in futuro (saranno consolati, erediteranno la terra, saranno saziati, troveranno misericordia, vedranno Dio, saranno chiamati figli di Dio), ogni volta che ci faremo strumenti nelle mani e della presenza operante di Dio, nel contempo ispiratore, datore e destinatario, nella persona dei suoi figli e figlie, delle beatitudini. Declinazione tutta laica, perciò, della santità che Dio disegna e sogna, per non discriminare nessuno. Stamattina, Padre Geraldo aveva cominciato la sua omelia, chiedendo se qualcuno avesse già conosciuto, convissuto, incontrato, abbracciato, stretto la mano, visto da vicino, un qualche santo o santa. E, a sorpresa, ne è venuto fuori un certo numero di nomi di ogni tipo, tra quelli già canonizzati e quelli [ancora] no: irmã Dulce, Dom Helder, Dom Luciano, Dom Pedro, Maria de Lourdes Guarda, Abbé Pierre, padre Pio, Arturo Paoli, irmãzinha Veva, card. Martini, Dom Tomás, Pedrão, padre Filipe, frei Mingas, e poi i santi e le sante di casa, e ciascuno ha i suoi, la madre, il padre, una sorella, una nipote, ma anche, e più ancora amati da Lui, i santi sbadati e sbandati (ne conosciamo tutti), ed è venuto fuori il nome di Leandro, nipote di dona Nady, trovato morto di alcool per strada a Goiânia, qualche giorno fa. Che proprio non ce l’ha fatta a trovare la strada di casa, e Lui se l’è venuto a prendere, di persona. Per consolarlo e dirlo beato, in sua compagnia, nei secoli di secoli.

La festa di Ognissanti ci riporta alla mente tutti i santi che, in vario modo, hanno accompagnato le nostre esistenze fino ad oggi. Quelli, forse, contemplati solo da lontano, che ci eravamo presi come impossibili modelli. O, più semplicemente, coloro accanto ai quali abbiamo camminato, gioito, sofferto. Coloro che ci hanno amati e che abbiamo amato; quanti erano angeli sotto sembianze umane, e coloro che avevano così tanti difetti che non ne ricordiamo più nemmeno uno e perciò vuol dire che il buon Dio (che è meno cavilloso di santa madre Chiesa), li ha già canonizzati in proprio. Ognissanti sono tutti loro. Anche quelli che si muovono ancora oggi intorno a noi, le donne di qui, silenziose (mica sempre!) e forti. E gli uomini, duri, cocciuti, resistenti, che se si concedono qualche peccato, è per restare umili e senza difese nell’amore. Di quelle e di questi, oggi non si può fare il nome, perché si farebbe comunque torto a qualcuno. E oggi invece è Ognissanti. Tutti santi, per Dio. Tutti belli e buoni. Come per mamma.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della festa di oggi e sono tratti da:
Libro dell’Apocalisse, cap.7, 2-4. 9-14; Salmo 24; 1ª Lettera di Giovanni, cap.3, 1-3; Vangelo di Matteo, cap.5, 1-12a.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Assieme a questa festa, il calendario ci porta la memoria di Rupert Mayer, gesuita, martire del totalitarismo nazista.

Rupert Mayer nacque a Stuttgart il 23 gennaio 1876, ed entrò nella Compagnia di Gesù, già sacerdote, nel 1900. Per alcuni anni si dedicò a predicare le missioni popolari in Germani, Austria e Svizzera, poi, a partire dal 1912, assunse la cura pastorale degli immigrati a Monaco. Cappellano militare durante la Prima Guerra Mondiale, fu ferito ed abbe la gamba sinistra amputata. Nel 1917 riprese la sua attività pastorale, dedicandosi soprattutto ai più poveri. Attento all’evoluzione politica del suo paese, avvertì subito la vera natura e il pericolo del nascente movimento nazista e affermò ripetutamente che un cattolico non poteva in nessun caso aderirvi. Quando Hitler salì al potere, il coraggioso prete continuò a difendere e diffondere pubblicamente le sue idee, il che gli costò numerosi arresti, fino all’internamento, nel 1939, nel campo ci concentramento di Sachsenhausen. Le sue gravi condizioni di salute convinsero i nazisti, l’anno successivo, a trasferirlo in domicilio coatto nel monastero benedettino di Ettal, nella Baviera settentrionale. Morì di un colpo apoplettico mentre teneva l’omelia della festa di Ognissanti, a Monaco, il 1° Novembre 1945. La sua preghiera preferita era: “Signore, come tu vuoi, quando tu vuoi, ciò che tu vuoi, perché tu lo vuoi”. Come ricordava il P. Peter-Hans Kolvenbach, preposito generale della Compagnia di Gesù, in occasione della sua beatificazione: “In tutto quello che faceva, la proclamazione della Buona Notizia era intimamente legata all’impegno a favore dei poveri e degli oppressi. In molte maniere viveva l’opzione preferenziale per i poveri, riconoscendo sempre in essi il Signore in persona […] Formò, altresì, dei laici responsabili che divennero compagni d’apostolato nella proclamazione del messaggio della Fede, nella difesa dei perseguitati, nella cura dei poveri”.

Il 1º novembre 1995 moriva a Milano, un po’ tanto prima del tempo che sarebbe lecito attendersi, Mario Cuminetti, uno studioso e animatore culturale, che alcuni nostri amici e amiche hanno conosciuto da vicino, scegliendo di lasciarsi da lui accompagnare (con discrezione, modestia, un filo d’ironia, ma con assoluta competenza) nell’iniziazione e approfondimento delle tematiche che riguardavano la fede, la cultura, il dialogo tra le culture e l’impegno sociale. Congedandoci, scegliamo allora di offrirvi in lettura il brano di un suo articolo, proposto dalla rivista Pretioperai, n. 34, marzo 1996, sotto il titolo “L’icona del messia sofferente”, che è così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È importante determinare correttamente il vero fine della redenzione. Contrariamente a quello che normalmente si pensa, redenzione e libertà, e non redenzione e salvezza, sono i due concetti reciprocamente ordinati. Il termine salvezza non è sufficientemente profondo per potersi adeguare alla pienezza di ciò che si vuol esprimere. La liberazione è ciò che il credente si aspetta dal futuro di Dio: libero per Dio e per la realtà. La terminologia paolina è esplicita; la libertà può essere considerata il concetto chiave della sua antropologia. Un concetto che tocca direttamente la morte, il peccato, la sofferenza (liberi da) e che fonda un nuovo rapporto con Dio: la figliolanza e l’eredità definitiva. La realizzazione di questa libertà non sarà che la realizzazione di ciò a cui aspira tutto il creato: la creazione intera, che oggi geme e soffre, sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, in vista della splendida libertà dei figli di Dio (Rm 8,21). A questo proposito non sarà inutile ricordare, nonostante le difficoltà dell’interpretazione, il descensus ad inferos, troppo velocemente eliminato come topos mitologico. Questo descensus, come osserva Metz, «questo essere-coi-morti (del crocifisso), dimostra il movimento liberatore originario della storia della redenzione, senza il quale ogni storia della libertà si riduce a storia della natura e si placa tendenzialmente in essa. […] Nella luce di questa storia della redenzione non c’è soltanto una “solidarietà in avanti”, con le generazioni future, ma anche una “solidarietà rivolta all’indietro”, con gli ammutoliti dalla morte e i dimenticati; per essa non c’è soltanto una “rivoluzione in avanti”, ma in certa misura anche una rivoluzione all’indietro, in favore dei morti e delle loro sofferenze. Essa non contempla dal punto di vista dei vincitori, dei riusciti e degli arrivati, ma da quello dei vinti e delle vittime del teatro mondiale aperto della nostra storia» (Metz J. B., Redenzione ed emancipazione). (Mario Cuminetti, L’icona del messia sofferente).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 01 Novembre 2020ultima modifica: 2020-11-01T22:56:26+01:00da fraternidade
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