Giorno per giorno – 25 Settembre 2020

Carissimi,
“Allora Gesù domandò loro: Ma voi, chi dite che io sia? Pietro rispose: Il Cristo di Dio. Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Lc 9, 20-22). Come dire che Pietro aveva detto involontariamente il vero: Gesù è, sì, il Cristo, il Messia, non però come lo immaginava lui, né i suoi compagni, né il popolo e neppure le gerarchie religiose. Tanto è vero che Gesù ordina ai discepoli di non mettersi a propagandare questa loro convinzione, e si premura da subito di dare alla parola un contenuto diverso, addirittura opposto, rispetto a quello quasi unanimemente riconosciuto. Al messia vittorioso dell’immaginario religioso e popolare, oppone la figura di un figlio dell’uomo, che ha i tratti del servo sofferente delle profezie di Isaia. Gettando nello sconforto e seminando scandalo tra i discepoli, come risulta meglio nel racconto degli altri due sinottici (cf Mt 16, 22-23; Mc 8, 32-33). I quali discepoli, solo poco a poco si renderanno conto di cosa significhi questo in ordine all’idea che si ha di Dio, della sua verità che è Gesù, e perciò del significato del nostro stare al mondo. Dio, non più come proiezione della nostra brama di potere, ma come figura di una incondizionata dedizione al bene di tutti. Che, paradossalmente, proprio per questo, sarà (e continua ad essere) rifiutato, perseguitato e ucciso (nei suoi figli), in nome del’altro dio, in cui trovano giustificazione i nostri egoismi e la volontà di affermazione di pochi a danno dei più. Coniugando l’antico detto “extra ecclesiam nulla salus” (fuori della chiesa non c’è salvezza), in ambito, politico, sociale, economico e religioso. La salvezza, in termini materiali e o spirituali è destinata a pochi, i nostri. Gli altri si dannino. E Gesù viene invece a testimoniare il contrario: Dio è là dove si è disposti a perdere e a morire, per la vita degli altri. Se no, siamo ancora pagani e atei.

Oggi facciamo memoria di Rabbi Akivà, maestro in Israele.

Akivà era nato a Lydda intorno al 50 d.C. Figlio di un proselito di nome Yosef, fino a quarant’anni fu povero, ignorante e, per dire così, anticlericale. Soleva infatti dire: Se incontrassi uno studioso della Bibbia, lo morderei come un somaro (Talmud, Pesachim 49b). Era pastore alle dipendenze di un ricco soprannominato Kalba Savua, perché si diceva che chiunque entrasse nella sua casa affamato come un cane (kalba), se ne ripartiva satollo (savua). Lì si innamorò della bella figlia di lui, Rachel, che accettò di sposarlo a patto che si mettesse a studiare seriamente la Bibbia. E fu un successo. Anche se questo significò per lei, almeno in un primo momento, la perdita dell’eredità paterna. Divenuto maestro famoso, Rabbi Akivà non dimenticò mai le sue umili origini e fu molto amato dal suo popolo. Insegnava che, tutto ciò che ci accade, Dio lo volge prima o poi al nostro bene. Sosteneva anche che ogni essere umano è creato a immagine di Dio e che per piacere a Dio non è necessario conoscere e praticare la Legge di Mosè (che è prerogativa e vocazione particolare d’Israele). È sufficiente vivere secondo la morale dettata dalle norme elementari della legge di Noè (vivere secondo giustizia, non praticare idolatria, non commettere incesto, non uccidere, non rubare, non prostituirsi, non cibarsi di carne viva). Amò molto il Cantico dei Cantici, diceva che alla sua luce possiamo leggere tutta la Bibbia come un rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Questo lo spinse a battersi perché fosse incluso nel canone della Bibbia ebraica. Quando scoppiò la rivolta antiromana di Shimon Bar Kokhbà, la appoggiò con convinzione, certo del suo carattere messianico. La rivolta fu soffocata nel sangue. Akivà, imprigionato per non aver obbedito al divieto imperiale di insegnare pubblicamente la Torah, fu condannato alla dilacerazione delle membra per mezzo di arpioni. La condanna fu eseguita il 25 settembre dell’anno 135 (9 del mese ebraico di Tishri) e Rabbi Akivà morì il giorno successivo, festa dello Yom Kippur. Le sue ultime parole furono: Adonai ehad. Il Signore è uno solo.

I testi che la liturgia di oggi propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Qoelet, cap.3, 1-11; Salmo 144; Vangelo di Luca, cap.9, 18-22.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco di misericordia.

In una delle lezioni magistrali pronunciate all’inizio dell’anno 2000 all’Università di Bologna, raccolte nel libro “Sei riflessioni sul Talmud” (Bompiani), il Premio Nobel per la Pace Elie Wiesel ha rivisitato la figura di Rabbi Akivà (o ’Aqiba), così come ci è stata tramandata dal Talmud. Nel congedarci, scegliamo di proporvene un brano come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Rabbi ’Aqiba era pronto a rischiare, ma non a far rischiare gli altri. Era pronto a sopportare la propria sofferenza ma non a far soffrire gli altri. Questo è il motivo per cui insegnò clandestinamente, al contrario di rabbi Hanina ben Tradyon, che si ostinò a insegnare pubblicamente. Un tempo anche rabbi ’Aqiba lo aveva fatto. Anch’egli radunava le folle nelle piazze e insegnava loro la Legge. Un saggio di nome Papos ben Yehudah lo avvertì, domandandogli: “Non hai paura?”. E rabbi ’Aqiba rispose con una parabola: “Un bel giorno i pesci decisero di abbandonare l’oceano, talmente grande era la paura di finire nella rete dei pescatori. Dove pensate di andare? Domandò una volpe astuta a cui era capitato di assistere alla scena dall’alto di una collina. I pesci spiegarono alla volpe la loro paura di finire nella rete dei pescatori. Io vi aiuterò, disse la volpe astuta. Venite e seguitemi. Vi proteggerò. Ma dov’è la tua astuzia? replicarono i pesci. Se già c’è pericolo nel nostro ambiente naturale, ce ne sarà ancora di più fuori”. In altre parole, se studiare la Torah è pericoloso, non studiarla lo è ancora di più! Per gli ebrei, a quei tempi, la Torah era l’unica protezione. Lo stesso Papos ben Yehudah, poco dopo, venne arrestato. Con un messaggio mandò a dire a rabbi ’Aqiba: ‘Sei fortunato, ’Aqiba. Sei stato arrestato per aver studiato la Torah, mentre io per ragioni molto più frivole”. Ma lo studio della Torah non risparmiò rabbi ’Aqiba. Condannato a morte e torturato, è tra i dieci martiri della fede che, con ammirazione, ricordiamo durante la festa dello Yom Kippur. (Elie Wiesel, Sei Riflessioni sul Talmud).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Settembre 2020ultima modifica: 2020-09-25T22:37:35+02:00da fraternidade
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