Giorno per giorno – 24 Settembre 2020

Carissimi,
“Intanto il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: Giovanni è risorto dai morti, altri: È apparso Elia, e altri ancora: È risorto uno degli antichi profeti. Ma Erode diceva: Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?” (Lc 9, 7-9). Un vangelo di soli tre versetti quello ascoltato oggi, per dirci la domanda che Erode si pone su Gesù: Chi è costui? Chi era Gesù per il potere del suo tempo, come chi era Giovanni Battista, è facile intuirlo per la fine che entrambi hanno fatto. Il Nuovo Testamento menziona i membri della dinastia di Erode che hanno regnato, a diverso titolo, su regioni diverse, o solo in parte coincidenti, della Palestina, durante il primo secolo dell’era cristiana: Erode il Grande, che morì poco dopo la nascita di Gesù; Archelao e Erode Antipa, al quale ultimo si deve l’uccisione di Giovanni, entrambi figli di Erode, ma di madri diverse; Erode Agrippa, nipote del capostipite, che mandò a morte l’apostolo Giacomo; e suo figlio, Agrippa II, che ascoltò Paolo, quando era prigioniero, lo ritenne innocente, ma non potè fare nulla, dato che l’apostolo si era appellato a Roma. La dinastia non era ebrea, ma originaria dell’Idumea, una regione a sud della Giudea, la cui popolazione, nel 130 a. C. fu forzatamente convertita e assimilata al giudaismo. Tutti i suoi esponenti adottarono una politica di amicizia e di dipendenza nei confronti della potenza romana. Sospettosi e violenti tanto con gli oppositori quanto nelle loro relazioni interne, caratterizzati da stili di vita paganeggianti e di comprovata immoralità, fecero però il possibile per guadagnare il favore degli ebrei, mostrandosi pubblicamente rispettosi delle osservanze religiose e iniettando ingenti somme di denaro per la costruzione e l’ampliamento del Tempio di Gerusalemme, che si protrasse per decenni, fino a poco prima della sua distruzione da parte dei romani nell’anno 70. Se per il potere, come constatiamo anche oggi, il rapporto con la religione oscilla spesso tra un suo uso strumentale in vista di un più facile consenso e dominio delle coscienze e una, a volte sottile, altre volte brutale, persecuzione e repressione, quando da essa si leva alta la denuncia del tradimento di quella cura del bene comune che dovrebbe essere la funzione di ogni buon governo, non diversa può essere la domanda che poniamo a noi. Chi è Gesù per noi? A cosa lo riduciamo? A puntello delle peggiori forme di potere, come accade qui da noi, con l’appoggio esplicito di molte chiese al governo criminale e criminogeno di questi anni? O all’annuncio e testimonianza della Buona Notizia del Regno del Padre di Gesù, che si destina ai poveri, in termini di servizio, dono, solidarietà e lotta comune in vista della liberazione dai mali che opprimono il mondo?

Il calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Silvano del Monte Athos, monaco e mistico ortodosso, e di irmazinha Veva, piccola sorella di Gesù tra gli indios Tapirapé.

Nato in una famiglia contadina del villaggio di Chovsk (Russia), nel 1866, Simeone Ivanovic Antonov deve molto di quello che sarebbe diventato a suo padre, Ivan, analfabeta, ma non nella fede. Di lui il futuro monaco dirà: Da mio padre ho imparato a non affliggermi per la perdita dei beni materiali e a confidare sempre nel Signore. Quando in casa sopraggiungeva una contrarietà, il suo cuore non si turbava. Dopo un incendio che gli aveva distrutto ogni cosa, non si disperò, ma ripeteva con fiducia: “Il Signore farà in modo che tutto si rimetta a posto”. Una volta passavamo vicino al nostro campo e io gli dissi: “Guarda, ci rubano il raccolto!”. Ma egli mi rispose: “Figlio mio, il Signore non ci ha mai fatto mancare il pane. Se quell’uomo ruba è perché ne ha bisogno”. Un’altra volta gli dissi: “Tu fai sempre elemosine, ma altri, più ricchi di noi, danno molto meno”. Ma egli rispose: “Figlio mio, il Signore ci da il necessario.” E riconoscerà: Non sono arrivato alla statura di mio padre. Era un uomo completamente analfabeta. Anche quando recitava il Padre Nostro – l’aveva imparato a forza di sentirlo in chiesa – ne pronunciava certe parole in modo maldestro. Ma era un uomo pieno di dolcezza e di sapienza”. E ancora: “Ecco uno starec (padre spirituale) come vorrei averlo io. Non andava mai in collera, non aveva mai alti e bassi, era sempre dolce”. Dopo una giovinezza che conobbe le passioni, le intemperanze e le cadute caratteristiche di questa età, Simeone decise di dare una svolta alla sua vita e, nel 1892, si recò al Monte Athos, nel monastero di San Panteleimon, dove divenne monaco, assumendo il nome di Silvano. La vita, anche lì, non fu niente facile: l’aridità spirituale, il desiderio di desistere, di andarsene via, di sposarsi, di avere una vita come tutti, l’angoscia spirituale, la disperazione della salvezza furono prove che l’accompagnarono per anni. Ma tenne duro. Scoprì con entusiasmo la preghiera del Nome (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi compassione di me”) e divenne uomo di grande ascesi e di straordinaria umiltà e dolcezza, arricchito di numerosi carismi: profezia, discernimento, chiaroveggenza, cura. Ma fu, soprattutto, apostolo della speranza e dell’amore universale. Soleva dire: “Chi ha in sé lo Spirito Santo, si preoccupa di tutti gli esseri umani, notte e giorno; il suo cuore soffre per ogni creatura di Dio, particolarmente per quelli che non conoscono Dio e che gli si oppongono”. E ancora: “Non conosce Dio nello Spirito Santo chi non ama i suoi nemici”. Morì il 24 settembre 1938 e fu canonizzato nel 1987 dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Dimitrios.

Nel primo pomeriggio del 24 settembre 2013, nel municipio di Confresa (Mato Grosso), si spegneva irmazinha Veva (Geneviève Hélène Boyé). Aveva da poco compiuto novantanni, essendo nata il 19 agosto 1923, a Valfraicourt, in Francia. Si era sentita male, poco dopo il pranzo, nel villaggio di Urubu Branco, dove viveva, morendo durante il trasporto all’ospedale. Irmã Veva aveva speso la sua vita come missionaria in mezzo al popolo Tapirapé, in Mato Grosso. Era stata una delle pioniere, nella vita missionaria, della teologia dell’inculturazione del Conselho Indigenista Missionário (Cimi), un organismo legato al Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani, votato a preservare la cultura e la religiosità dei popoli indigeni. Entrata nella congregazione delle Piccole sorelle di Gesù, dopo aver trascorso due anni in Algeria, Geneviève aveva lasciato definitivamente la Francia alla volta del Brasile, dov’era giunta il 24 giugno 1952, con altre due consorelle, Clara e Denise, stabilendosi da subito tra gli indios Tapirapé, ridotti allora ad un popolo di cinquanta persone, sopravvissute agli attacchi dei bellicosi vicini Kayapó. Dei Tapirapé, le piccole sorelle di Gesù avrebbero condiviso sempre stile di vita e di abitazione, usi, costumi e alimentazione. Di apparenza fragile, magrissima, capelli bianchi, Irmã Veva aveva continuato fino all’ultimo ad alzarsi prima dell’alba per prendersi cura dell’orto comunitario che sorge dietro le case di terra battuta di Urubu Branco, il più grande dei cinque villaggi, in cui vivono oggi oltre cinquecento tapirapé. Veva, noi la si era conosciuta nella Pasqua del 2012, quando era venuta con le sue sorelle Odila e Elizabette, a celebrare la Settimana santa qui da noi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Qoeleth, cap.1, 2-11; Salmo 90; Vangelo di Luca, cap.9, 7-9.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi un testo di Silvano dell’Athos, tratto dal libro dell’Archimandrita Sofronio, “Silvano del Monte Athos” (Edizioni Qiqajon). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Oh fratelli, dimentichiamoci la terra e tutto ciò che in essa si trova! Questa ci distrae dalla contemplazione della Santa Trinità, che è incomprensibile alla mente, ma che è vista dai santi in cielo per mezzo dello Spirito Santo. Noi invece restiamo in preghiera senza nessuna presunzione, e chiediamo al Signore lo spirito di umiltà; e il Signore ci amerà e ci darà sulla terra tutto ciò che è vantaggioso per l’anima e il corpo. Signore misericordioso, dona la Tua grazia a tutti i popoli della terra, affinché Ti conoscano; poiché senza il Tuo Spirito l’uomo è incapace di comprendere il Tuo amore. Figliuoli cari, riconoscete il Creatore del cielo e della terra. Ti prego, Signore, manda la tua misericordia ai figli della terra, che Tu ami, e fa’ che essi Ti conoscano nello Spirito Santo. Ti prego: ascolta la mia preghiera e fa’ che tutti i figli della terra conoscano la tua gloria mediante lo Spirito Santo. Quand’ero giovane amavo pensare: “Il Signore è asceso al cielo, e ci aspetta. Ma per poter stare con lui, dobbiamo essere simili a Lui e simili ai fanciulli, umili e miti di cuore e servirLo. Solo allora, secondo la parola del Signore – ‘dove sono io sarà anche il mio servo’ – noi staremo con Lui nel Regno dei cieli”. Ma ora l’anima mia è offuscata e smarrita, e io non riesco ad innalzare a Dio la mente pura e non trovo le lacrime per piangere le mie azioni sciagurate. L’anima mia si intristisce e indebolisce nelle tenebre di questa vita. (Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Settembre 2020ultima modifica: 2020-09-24T22:47:58+02:00da fraternidade
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