Giorno per giorno – 25 Agosto 2019

Carissimi,
“Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi” (Lc 13, 29-30). È la conclusione della parabola che Gesù racconta in risposta alla domanda di un tale della folla, che gli aveva chiesto: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v. 23). Domanda a cui Gesù non risponde direttamente, anche perché tutti ci si senta questionati. In questo è meno categorico di molti credenti che pretendono di sapere chi si salva e chi no, e addirittura quanti siano, e sono sempre loro, che, della salvezza, si arrogano così il monopolio, pur ripetendo a raffica: Solo Dio salva. Gesù mette in guardia proprio loro, e non i poveri cristi, di ogni popolo, cultura e religione, che arrivano da ogni dove per sedere alla mensa della fraternità del Regno. Quanti riterranno di essere salvi per il solo fatto di aver ricevuto la Parola (“tu hai insegnato nelle nostre piazze”, v.26), e celebrato il Sacramento (“abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza”, ibid), si sentiranno dire: “Non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!” (v.27). Dove l’iniquità è negarsi all’accoglienza e al dono, e perciò negare Dio, che è accoglienza e dono. Non sono perciò i cammini creduti, confessati, predicati (monotesmi, politeismi, panteismi, panenteismi, ateismi e quant’altro), che portano alla salvezza (vita vissuta all’ombra del significato di Dio), ma il Cammino (che noi sappiamo essere Gesù), in cui la Parola che, nel dono di sé, ha dato origine a tutto, diventa carne e storia nella nostra vita, portandoci a riconoscere in tutti la presenza di Dio che, nella sua mirabile varietà, arricchisce e rallegra la comunità umana. È questa la porta stretta che siamo chiamati ad attraversare, porta che ci obbliga a rinunciare all’orgoglio che gonfia il nostro Io, individuale e collettivo, alimento, a sua volta, di ogni idolatria politica, economica, nazionalista, religiosa, culturale, di cui vediamo infettato il tempo presente. In tutto questo sfacelo, resta vera la promessa (che siamo chiamati a testimoniare nelle nostre scelte) circa gli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi. A conferma della beatutudine che dice: Felici i poveri, perché di essi è il Regno.

I testi che la liturgia di questa XXI Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.66, 18-21; Salmo 117; Lettera agli Ebrei, cap.12, 5-7. 11-13; Vangelo di Luca, cap.13, 22-30.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Il calendario ci porta oggi la memoria di Anne Marbury Hutchinson, mistica e riformatrice puritana, di Alessandro Dordi, presbitero e martire in Perù, e di Enrico Chiavacci, teologo dell’amore cristiano.

Anne Marbury era nata nel luglio 1591 ad Alford, nel Lincolnshire, in Inghilterra, figlia di Bridget Dryden e di Francis Marbury. E qualcosa ci fa pensare che abbia ereditato il carattere dal padre, il quale era finito due volte in carcere per aver difeso la libertà religiosa e criticato la scarsa preparazione del clero anglicano. Nel 1612 Anne aveva sposato il commerciante William Hutchinson, a cui avrebbe generosamente dato quindici figli. Nel 1634, la famiglia, per incompatibilità con le gerarchie religiose del suo Paese, emigrò a Boston, nel Massachusetts. Trovandovi, tuttavia, una situazione non molto differente, dato che l’intolleranza aveva solo cambiato soggetto: nella madrepatria, la Chiesa d’Inghilterra, qui i Puritani, con il ferreo controllo esercitato su usi e costumi, nonché sulle riunioni religiose della popolazione delle colonie. La Hutchinson pensò che qualcosa non quadrava. Le pareva impossibile che lo Spirito Santo potesse comunicare con il popolo di Dio solo attraverso i precetti religiosi delle istituzioni e le lunghe omelie dei predicatori. Sicché si diede da fare ad organizzare autonomamente incontri settimanali per commentare la Bibbia. Il che oggi sarebbe quasi normale, ma allora, era quattro secoli fa, e, per di più, agli incontri cominciarono a partecipare centinaia di persone, donne, uomini e persino pastori. Ma, quel che è peggio, la nostra era, inconfondibilmente, donna. Il che, francamente costituiva un’eresia intollerabile. Se poi si aggiunge, qualche giochino dei politici per mantenere il controllo sulla popolazione della colonia, il gioco è fatto. La povera Anne, assieme a qualcun altro incauto, nel novembre 1637 fu processata dalla Corte Generale come eretica e posta agli arresti domiciliari, con la speranza che abiurasse le sue idee, fino al 15 marzo 1638, quando fu nuovamente processata, scomunicata e bandita da Boston. La donna, con il marito, i figli e alcune decine di seguaci si trasferì allora in un’isola, che oggi fa parte di Rhode Island, denominata Aquidneck, da loro acquistata dagli indiani Narragansetts. Lì, fondarono la colonia di Pocasset, l’odierna Portsmouth. Nel 1642, dopo la morte del marito, la Hutchinson si recò a vivere a Pelham Bay, nella colonia olandese di Nuova Amsterdam (la futura New York), dove, in un giorno imprecisato dell’agosto 1643 essa fu massacrata con cinque dei suoi figli e tutta la servitù, durante una razzia compiuta dagli indiani Mohicani. Molti studiosi del XX secolo la considerano la prima donna americana che lottò per la tolleranza religiosa e contro la discriminazione verso le donne.

Il martirologio latino-americano ricorda il martirio a Rinconada, dipartimento di Ancash, in Perù, di un sacerdote italiano, Alessandro Dordi (Sandro), nato il 23 gennaio 1931 a Gromo S. Marino (Bg), e ordinato prete nel 1954. Apparteneva ad una comunità missionaria di sacerdoti diocesani. Per 11 anni esercitò il ministero nel Polesine, poi per 13 anni fu cappellano degli emigrati in Svizzera. Nel 1980 partì missionario per il Perù, dove venne assassinato dai terroristi di Sendero Luminoso il 25 agosto 1991. Fu esempio di dedizione silenziosa, modesta, totale, all’Evangelo del Regno e alla sua gente.

Pochi gli elementi biografici che abbiamo a disposizione di don Enrico Chiavacci, frutto anche della sua scelta di evitare ogni forma di protagonismo, per concentrarsi tutto nella sua attività di studioso e nel servizio pastorale alla piccola comunità parrocchiale dove aveva scelto di vivere. Nato a Siena nel 1926, dopo gli studi superiori, iniziò la facoltà di ingegneria, che presto però abbandonò per entrare nel Seminario dell’Archidiocesi di Firenze. Ordinato presbitero il 9 luglio 1950, dopo gli studi di teologia morale, si dedicò all’insegnamento e alla ricerca, dando sempre più spazio, nella sua riflessione, a temi e ambiti trascurati dalla disciplina tradizionale, quali quello della struttura sociale ed economica, dell’organizzazione politico-militare, della comunicazione di massa e di quello dominante della pace, scegliendo, tuttavia, come più sopra ricordato, di vivere la fedeltà alla dimensione pastorale della sua vocazione, servendo come parroco della comunità di San Silvestro in Ruffignano, frazione di Sesto Fiorentino, dal 1961 fino alla morte. Lo ricordiamo con due citazioni. Una relativa alla critica portata alla morale dai cosiddetti maestri del sospetto, l’altra su ciò che significa morale, nella nostra esperienza cristiana. “La critica alla morale è stata spesso, e in qualche misura dovrebbe essere ancora, la denuncia di un contrabbando: del contrabbandare come volere divino o comunque assoluto quello che altro non era che uno strumento di indebita assolutizzazione di una cultura o di un potere. E il rischio di appiattire il codice morale su un codice sociale sempre vi è stato e sempre vi sarà: e forse vi sarà in misura sempre maggiore, quanto maggiore è la potenza e il controllo dei mezzi di comunicazione di massa. E anche l’annuncio cristiano in materia morale non è sfuggito e non sfugge a tale rischio. In fondo fra la definizione di K. Marx della religione come “oppio del popolo” e quella di A. Rosmini della religione come “instrumentum regni” non vi è molta differenza”. “La cura e la dedizione per l’altro sono la morale. Anche nei miei comportamenti privati, esteriori o interiori, in cui l’altro non è direttamente coinvolto, il mio vivere donato resta il criterio ultimo e ineliminabile della moralità. Anche nella totale solitudine esteriore e nel silenzio interiore, e anche nell’impotenza materiale di entrare in rapporto con l’altro, l’altro mi è sempre presente. Nostro Signore morì in assoluta solitudine e in condizioni di assoluta impotenza, ma anche in un assoluto abbandono al disegno del Padre che tanto ha amato il mondo da dare il suo figlio unigenito (Gv 3,16)”. Don Enrico Chiavacci si è spento la notte del 25 agosto 2013 nella sua parrocchia di Ruffignano.

E, per stasera è tutto. Noi, nel congedarci, lasciamo la parola a don Enrico Chiavacci, offrendovi in lettura un brano della relazione da lui svolta con il titolo “Il rispetto dei diritti umani come garanzia di pace”, nel corso della Giornata per la pace del 12 Dicembre 1999, presso la Comunità parrocchiale di S.Stefano a Paterno di Bagno a Ripoli (Firenze). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Siamo in un momento di terribile ma anche bellissima, entusiasmante transizione. Ringrazio Dio di avermi fatto vivere ora, almeno non mi sono mai annoiato negli ultimi vent’anni! Non ho mai avuto un momento di pace, da poter dire “questa è la mia teologia”. La mia teologia deve sempre confrontarsi con qualcosa di nuovo. Quindi siamo fortunati. Però abbiamo la sofferenza di dover partorire, dobbiamo accettare la sofferenza del parto. Dall’umanità di oggi, dei prossimi vent’anni, dovrà nascere (speriamo che possa nascere), uno stile di convivenza della famiglia umana, legato ad una serie di diritti fondamentali: dignità per tutti e anche diversità di applicazione (come si dice oggi di “implementazione”) di questi diritti nelle varie aree; in maniera che ciascuna cultura possa mantenere la sua tradizione, la sua identità, ma sempre aperta a confronti nuovi e ad apporti nuovi. Questo è un grande compito per il cristiano e per la Chiesa, perché il Signore l’ha mandata a dare il Vangelo a tutte le creature. La Chiesa quindi ha davanti a sé, “per istituto”, il compito di vedere la famiglia umana e non i singoli Stati. Il traguardo della Chiesa è la famiglia umana vista come un tutt’uno. Per noi cristiani, quello di favorire la globalizzazione della famiglia umana è un compito nativo, inerente al fatto di essere cristiani. Sì, una globalizzazione che tenga conto prima di tutto del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo ed in secondo luogo del rispetto della diversità di tradizioni e culture; quindi che faciliti la possibilità di un’osmosi dall’uno all’altro, senza traumi, senza irrigidimenti, anzi con estrema serenità. Ci saranno dei limiti, ovviamente, ma dobbiamo trovare noi la via. Non c’è già scritta una via. Non abbiamo niente di scritto che venga da una nostra tradizione per questo fine; nesssuno ha una tradizione di questo tipo, dobbiamo inventarcela. Siamo noi (specialmente i più giovani di voi) i creatori di qualcosa che sta già nascendo e può nascere in bene o in male, in benedizione o in maledizione. Cerchiamo dunque di vivere per essere benedizione! (Enrico Chiavacci, Il rispetto dei diritti umani come garanzia di pace).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Agosto 2019ultima modifica: 2019-08-25T22:26:40+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo