Giorno per giorno – 17 Luglio 2019

Carissimi,
“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11, 25-26). Ieri il vangelo ci parlava della sofferenza di Dio davanti all’incredulità delle ricche (e, forse, anche “religiose”) città del lago, oggi Gesù manifesta la sua sorpresa gioiosa davanti alla fede dei piccoli, ultimi, esclusi, insignificanti. Che, di Dio, forse, pur masticando poco di religione, hanno capito tutto ciò che basta, trovando in questo la ragione del loro fidarsi (la loro fede): il suo essere Padre, che ci fa tutti fratelli, senza escludere nessuno. Questo è il nucleo centrale dell’annuncio cristiano, quel Regno che si destina ai Poveri, come dono di amore del Padre ai suoi figli, fonte della loro felicità, motore del loro operare nella storia.

Oggi noi facciamo memoria di Bartolomeo de las Casas, pastore e difensore della causa dei popoli indigeni e dei negri, Andrei Rublev monaco iconografo, François Varillon, gesuita e guida spirituale.

Bartolomeo, nato a Siviglia l’11 novembre 1484 da Pedro de Las Casas e Isabel de Sosa, entrambi di ascendenza ebraica, quando, diciottenne, risolse di seguire il padre per il Nuovo Mondo, sognava di arricchirsi con i proventi delle piantagioni paterne, come un qualunque colono, sfruttando la mano d’opera schiava. Tuttavia, toccare con mano la crudeltà dei coloni e le indicibili sofferenze inflitte alle popolazioni indigene, fecero maturare una profonda crisi religiosa in lui, che nel frattempo aveva abbracciato lo stato ecclesiastico ed era stato ordinato, verso il 1510, sacerdote. A partire dal 1514, resosi conto del crudele sfruttamento a cui erano sottoposti gli indigeni, vista la corruzione imperante tra i funzionari reali e toccato dalla predicazione profetica del domenicano Antonio di Montesinos, che denunciava gli abusi e le crudeltà della conquista “cristiana”, Bartolomeo mutò radicalmente di vita. Liberati gli indigeni alle sue dipendenze e distribuite le sue terre, divenne da allora l’instancabile difensore dei diritti calpestati di quelle popolazioni oppresse. Nel 1523, entrò nell’ordine domenicano, per mettersi in qualche modo al riparo dalle persecuzioni dei conquistadores, ma anche di buona parte della gerarchia ecclesiastica spagnola. Per nulla intimorito, frei Bartolomeo continuò la sua azione di denuncia, presso il governo centrale, sugli abusi degli spagnoli e le sofferenze degli indigeni. Scrisse la Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie con cui intese documentare la tragedia che si svolgeva sotto i suoi occhi. Nominato a sessant’anni vescovo del Chiapas (Messico), rimase solo tre anni in quell’ufficio, invariabilmente osteggiato dai colonizzatori spagnoli e dal suo stesso clero. Tornò in Spagna nel 1547, continuando da lì la sua lotta a favore degli indios, fino alla morte, avvenuta a Madrid, il 17 luglio 1566.

Andrej Rublev nacque in Russia verso il 1360. Divenne monaco nel mostastero di Serpuchov, dove emise la professione religiosa e ricevette l’ordinazione presbiterale. Alla Laura di Radonez, dove visse a lungo, apprese l’arte dell’iconografia da Teofane il Greco e conobbe il suo migliore amico, il bulgaro San Daniele il Nero, con cui convisse e lavorò fino alla morte, sopraggiunta per i due nello stesso anno. A lui si devono i dipinti dell’iconostasi nella cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino a Mosca, gli affreschi nella cattedrale della Dormizione di Vladimir, alcune tavole dell’iconostasi della stessa chiesa, gli affreschi della cattedrale del Salvatore nel monastero di Andronik, e la famosa icona della Trinità, ispirata alla scena biblica dell’ospitalità offerta da Abramo ai tre angeli. Dal punto di vista spirituale Rublev fu senza dubbio un esicasta, praticava, cioè, il metodo ascetico della spiritualità ortodossa, che si serve soprattutto della “preghiera di Gesù”. Morì il 29 gennaio (11 febbraio del calendario gregoriano) 1427 (o 1430). Fatto oggetto di venerazione a livello locale, nei secoli XV e XVI, fu canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa nel 1988. La sua festa è celebrata oggi, 4 luglio (17 luglio del calendario gregoriano).

François Varillon nacque a Bron, alla periferia di Lione, il 28 luglio 1905. A ventidue anni, nel 1927, decise di lasciare la fidanzata, Simona, per entrare nella Compagnia di Gesù. Pronunciò i suoi primi voti nel 1930 e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1937. In seguito fu professore di lettere classiche e di filosofia e poi, per molti anni, assistente ecclesiastico di diversi movimenti dell’Azione cattolica, e, dal 1972 al 1978, direttore della Casa di Ritiri di Châtelard. Morì il 17 luglio 1978. I suoi scritti di spiritualità hanno segnato intere generazioni di cristiani.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dell’Esodo, cap.3, 1-6. 9-12; Salmo 103; Vangelo di Matteo, cap.11, 25-27.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

Oggi compie sessantasette primavere il Pastore Raimundo Aires, vescovo di questa città per il Ministério Nova Terra della Chiesa di Cristo. Un uomo di Dio come pochi, che onora della sua amicizia noi e un buon numero di voi, e che mettiamo, perciò, nella vostra preghiera bene augurante.

E, per stasera, è tutto. Noi ci congediamo qui, offrendovi in lettura un brano di François Varillon, tratto dal suo libro “Gioia di credere, gioia di vivere” (EDB), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dio è la povertà assoluta; in lui non c’è traccia di avere, di possesso. Eternamente il Padre dice al Figlio: tu sei tutto per me. Il Figlio risponde al Padre: tu sei tutto per me. E lo Spirito santo è il dinamismo stesso di questa povertà. È Dio il più povero di tutti gli esseri. Se la vostra ragione vacilla davanti a una simile prospettiva, dite allora: Dio è ricco, ma aggiungete immediatamente: ricco in amore e non in avere. Ora, essere ricco in amore ed essere povero è esattamente la stessa cosa. Dio è un infinito di povertà. La proprietà è il contrario stesso di Dio. Certo, nella complessità delle vicende umane, una certa dose di proprietà è necessaria; colui che non possiede nulla è il barbone. Il guaio è che, se non possiede nessun avere, farà molta fatica ad essere, e ciò significa che, quaggiù, l’essere senza avere è impossibile. Per questo la chiesa dice che c’è un diritto di proprietà: perché l’essere umano sia, è necessaria una certa dose di avere. Ma in Dio questo non è assolutamente vero. E noi entreremo in Dio solo quando ci saremo spogliati di ogni avere. La povertà materiale di Betlemme e di Nazaret è solo il segno di una povertà molto più profonda. Povertà immensa di Dio, infinita, assoluta, senza la quale non possiamo affermare che Dio è amore. Come siamo lontani da certe immagini di Dio! Siamo seri: è qui il nucleo della nostra fede, non sono battute. Ci sono degli atei che non sono seri, ma ci sono anche dei cristiani non seri. Se ci si vuol collocare nella giusta prospettiva bisogna confrontare il cristiano serio e l’ateo serio. E il cristiano serio è colui che afferma la povertà di Dio. (Francois Varillon, Gioa di credere, gioia di vivere).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 17 Luglio 2019ultima modifica: 2019-07-17T21:49:04+02:00da fraternidade
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