Giorno per giorno – 02 Giugno 2019

Carissimi,
“Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 46-49). Queste, secondo il racconto che ne fa Luca, sono le ultime parole rivolte dal Risorto ai suoi discepoli. Luca non teme di cadere in contraddizione, nel proporci due racconti diversi dell’ascensione. Nel vangelo risolve tutto – risurrezione, apparizioni e ascensione – nell’arco di un giorno, nel libro degli Atti (At 1, 3) sottolinea come Gesù apparve ripetutamente ai suoi durante quaranta giorni, prima di salire al Padre. Quaranta rappresenta nella Bibbia un numero simbolico, che appare assai spesso, tanto nel Primo Testamento, come nel Secondo, e designa il tempo della prova, dell’attesa fiduciosa, della penitenza, della maturazione della fede. Questo dovevano averlo ben chiaro sia l’evangelista che i suoi lettori, per intendere il carattere non contraddittorio del secondo racconto rispetto al primo. Questo spiega perché anche la liturgia ci proponga questi quaranta giorni per richiamare il significato complessivo dell’evento di Gesù, meditare su di esso, approfondirlo, e maturare così le scelte che devono connotare la nostra missione. Questo significa infatti l’invito dei messaggeri ai discepoli di non starsene lì a guardare il cielo (cf At 1, 11), una volta che si sia inteso e approfondito, alla scuola del Maestro, il significato più vero dell’annuncio e della testimonianza del Regno: servire alle cose della terra, pensando secondo la logica del cielo, cioè di Dio, così come l’abbiamo conosciuto in Gesù, in contestazione nonviolenta alla logica del Sistema di oppressione, espressione del principe del mondo (cf Col 3, 1-2). E speriamo che ci si arrivi tutti.

Oggi è, come si è capito, la Solennità dell’Ascensione del Signore. I testi della sua liturgia sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 1,1-11, Lettera agli Efesini, cap. 1,17-23; Vangelo di Luca, cap.24,46-53.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Il calendario ci porta oggi le memorie di Blandina e compagni, martiri in Gallia, di Jacques de Jesus, carmelitano, martire sotto la dittatura nazista, e di Giulio Facibeni, prete per gli altri.

Il documento conosciuto come Atti dei Martiri di Lione è una lettera che le Chiese di Lione e di Vienne inviarono a quelle d’Asia e Frigia, con il resoconto delle persecuzioni scatenate contro i cristiani negli anni 177 e 178. Il tutto era stato originato da un pogroom anticristiano, a cui il magistrato rispose con un’azione giudiziaria generalizzata. Contro le vittime, naturalmente, non contro gli aggressori. Blandina era una schiava che faceva parte del gruppo capeggiato dal vescovo Potino ed era stata arrestata assieme alla sua padrona. Condotta inizialmente nell’anfiteatro e appesa ad una croce, aveva pregato ad alta voce e le fiere l’aveva risparmiata. Successivamente, fu costretta ad assistere alla morte atroce dei suoi compagni, mentre lei superava il tormento della graticola ardente. Infine, rimasta sola, fu lasciata in balia della furia di un toro, che colpendola con le corna, la lanciò più volte in aria. Fu finita con la spada.

Lucien Louis Bunol nacque a Barentin (Francia), quarto di otto figli della famiglia di Zoé Pauline Pontif e Alfred Joseph Bunol. Seguendo la chiamata al sacerdozio, entrò a dodici anni entrò nel seminario minore di Rouen. L’11 luglio 1925 fu ordinato prete. Dopo aver insegnato per alcuni anni, sentendosi attratto dalla vita contemplativa, prese contatto, nel 1927, con il Carmelo di Havre e cominciò ad insistere con il suo vescovo perché gli permettesse di lasciare la diocesi per entrare nel Carmelo. Il che avvenne il 28 agosto 1931. Un anno più tardi emise i suoi primi voti, assumendo il nome di Jacques de Jesus. Nel 1934 il Consiglio Provinciale dell’Ordine gli affidò la direzione di un collegio fondato a Avon e il frate ci si dedicò anima e corpo. Il 3 settembre 1939 la Francia entrò in guerra e anche padre Jacques fu inviato al fronte. Fatto prigioniero il 18 giugno 1940, fu liberato a novembre. Nel gennaio del 41 la scuola riaprì. Nel 1943, d’accordo con i suoi superiori, accolse e nascose in collegio tre ragazzini ebrei per salvarli dalla deportazione ed entrò in contatto con la Resistenza per offrire una via di scampo a quanti fuggivano dalla deportazione dei civili decisa da Hitler per fornire mano d’opera schiava all’industria di guerra tedesca. Il 15 gennaio, in seguito ad una spiata, padre Jacques fu arrestato assieme ai tre ragazzi ebrei dalla Gestapo. (Le circostanze saranno narrate nel film di Louis Malle, Au revoir, les enfants). Rinchiuso nella prigione di Fontainebleau, fu trasferito qualche mese più tardi a Compiègne, poi nel campo di rappresaglia di Sarrebrück, infine a Mauthausen et a Gusen, ovunque esercitando nascostamente il suo apostolato. Il 5 maggio 1945, il campo di Gusen fu liberato dagli americani. Trasferito all’ospedale di Linz, in Austria, padre Jacques si spense dolcemente. Le sue ultime parole furono: “Negli ultimi momenti, lasciatemi solo”. Era il 2 giugno 1945. Nel memoriale di Yad Vashem, a Gerusalemme, Jacques Bunol è onorato dagli ebrei come “Giusto tra le nazioni”.

Giulio Facibeni era nato a Galeata, in provincia di Forlì, il 29 luglio 1884, in una famiglia poverissima di risorse, ma ricca di figli, ed era cresciuto, per dirla con le sue parole “con l’ansia degli studi e dell’impossibilità di compierli”. Dopo il liceo, nel 1904, si spostò a Firenze, dove s’iscrisse alla Facoltà di Lettere, lavorando nel contempo come assistente nel semiconvitto delle Scuole Pie fiorentine, per mantenersi agli studi. Fu qui che maturò la sua vocazione a prete. Ordinato nel 1907, per cinque anni si dedicò all’azione pastorale tra le figlie dei carcerati, nelle scuole parrocchiali serali e fra gli studenti medi. Nel 1912 fu mandato nella popolosa parrocchia di S. Stefano in Pane, nella zona industriale di Rifredi. Lasciò così l’insegnamento, decidendo anche di rinunciare alla laurea, ormai prossima, per dedicarsi anima e corpo al nuovo campo di apostolato. A Rifredi, nel primo dopoguerra creò l’Opera della divina Provvidenza Madonnina del Grappa: “una famiglia per chi non ha famiglia”, come diceva lui. Si trattava degli orfani che la guerra, l’inutile strage, aveva lasciato dietro di sé. Seppe amare quei ragazzi come un vero padre. Altre opere sarebbero seguite negli anni successivi. Durante la Seconda Guerra Mondiale profuse il suo impegno per salvare gli ebrei, vittime delle leggi razziste emanate dal regime fascista. Nel 1948, fu colpito dal morbo di Parkinson, che lo rese, per gli ultimi dieci anni di vita, sempre più dipendente dagli altri. Morì a Rifredi il 2 giugno 1958. Aperto, sulla sua scrivania, aveva il libro Esperienze Pastorali di don Lorenzo Milani, a cui aveva promesso una recensione ampiamente favorevole. Ma potè presentarla solamente lassù.

“Sempre, nella storia dell’umanità, ci sono Abele e Caino. C’è la mano tesa e la mano che percuote. C’è l’apertura dell’incontro e la chiusura dello scontro. C’è l’accoglienza e c’è lo scarto. C’è chi vede nell’altro un fratello e chi un ostacolo sul proprio cammino. C’è la civiltà dell’amore e c’è quella dell’odio. Ogni giorno c’è da scegliere tra Abele e Caino. Come davanti a un bivio, si pone tante volte di fronte a noi una scelta decisiva: percorrere la via della riconciliazione o quella della vendetta. Scegliamo la via di Gesù. È una via che costa fatica, ma è la via che conduce alla pace. E passa attraverso il perdono. Non lasciamoci trascinare dai livori che ci covano dentro: niente rancori. Perché nessun male sistema un altro male, nessuna vendetta soddisfa un’ingiustizia, nessun risentimento fa bene al cuore, nessuna chiusura avvicina”. Sono parole, ancora una volta coraggiose e profetiche, dell’ultimo discorso tenuto da papa Francesco in Romania, a conclusione del suo viaggio, nell’incontro avuto con la comunità dei Rom, durante il quale ha chiesto perdono, a nome della Chiesa, per le discriminazioni, le segregazioni, i maltrattamenti e i pregiudizi, sofferti da questo popolo, lì e nella sua diaspora, anche da parte di quanti si dicevano e si dicono cristiani. Che Dio perdoni e riconcili tutti.

È tutto, per stasera. E, prendeno spunto dalla festività odierna, vi offiamo in lettura il brano di un’omelia tenuta, il 31 maggio 1973, per la festa dell’Ascensione, da p. Benedetto Calati. La troviamo nel suo libro “Conoscere il cuore di Dio” (EDB), ed è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La festa dell’Ascensione sottolinea la glorificazione del Signore Gesù, la sua signoria sopra tutto e sopra tutti per l’amore con cui Lui si era dato a tutti e a tutto. Ma la signoria di Cristo sopra tutte le cose è anche la nostra signoria: significa la centralità dell’uomo nuovo “in Cristo” sopra il creato , signoria non fatta di “potere” o di ambigue risorse umane, ma frutto di amore. Solamente l’amore unifica, come Cristo in croce ci insegna costantemente. L’Ascensione perciò non è la separazione di Cristo da noi, non fa dei cristiani degli alienati, con lo sguardo in alto, nella ricrca di un Dio che sta fuori dei nostri rapporti. No, l’Ascensione sta a significare la rappacificazione dell’uomo con Dio, con se stesso, con le cose, con il creato, rappacificazione avvenuta ormai da quando la Chiesa di Cristo si staglia nella creazione e nella storia intera come segno profetico di unità e di amore. Era un’idea cara agli antichi quella di esprimersi attraverso dei simboli così ingenui, ma quanto mai essenziali, e così veri: come Cristo nella sua discesa agli inferi aveva debellato la morte e il suo regno, così per la sua ascensione ci rappacifica con il mondo superiore (si credeva che nell’aria abitassero gli spiriti maligni); “cieli dei cieli” penetrati da Cristo, nella concezione astronomica antica, significa che ormai non c’è niente che sfugge alla forza unica del suo amore. Possiamo e dobbiamo respirare l’amore che lui ha impresso ormai dovunque. Non si tratta di un sentimento poetico pieno di estetismo sentimentale, ma è la parola di Dio che ci incalza, che ci pone in crisi, una crisi benefica, per recuperare il rapporto di amore con tutti e con tutto, perché l’amore del Padre si è ormai manifestato in Gesù Cristo e lo Spirito d’amore inabita nei nostri cuori. C’è un’unica voce che è quella dello Spirito e della sposa che dicono: vieni! (Benedetto Calati, Conoscere il cuore di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Giugno 2019ultima modifica: 2019-06-02T22:05:31+02:00da fraternidade
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