Giorno per giorno – 19 Maggio 2019

Carissimi,
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Prima, però, che fosse proclamato il vangelo, un’amica ci aveva letto il brano dell’Apocalisse, proposto dalla liturgia di questa domenica: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra… Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo…. Udii allora una voce potente: Ecco la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà tra di loro… E tergerà ogni lacrima dai loro occhi…” e qui, quella che doveva risuonare come voce potente, improvvisamente s’incrinò e tacque, incapace di proseguire, per un evidentissimo, improvviso, imprevedibile, groppo alla gola (che si comunicò a molti di quanti l’ascoltavano), per alcuni lunghissimi secondi, finché, riscattando un filo di voce, amplificata dal microfono, l’amica riuscì a completare la lettura: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. C’è, dunque, questa promessa che ci accompagna, nelle nostre vicende personali, come in quelle sociali e mondiali. Traducibile in ciò che diceva in un’intervista, un nostro fortunato scrittore, Ariano Suassuna, scomparso cinque anni fa: “Non sono né ottimista, né pessimista. Gli ottimisti sono ingenui, i pessimisti amari. Sono un realista pieno di speranza. Sono un uomo di speranza. So che è per un futuro molto lontano. Sogno il giorno in cui il sole di Dio diffonderà la giustizia in tutto il mondo”. Speriamo non molto lontano, per la nostra amica col groppo alla gola, né per noi, per il nostro Paese, o per il vostro, o per chi vive esperienze infinitamente peggiori. Di quel futuro noi, come suggerisce il Vangelo, dovremmo costituire una sorta di laboratorio, amando come Lui, Gesù, ci ha amato. Come ha amato i discepoli che lo stavano per abbandonare, o rinnegare come Pietro, o tradire, come Giuda. Come ha continuato ad amare coloro che lo hanno consegnato alla croce e quanti lo hanno materialmente crocifisso. Che poi è ciò che facciamo anche noi, ogni volta che non amiamo o perdoniamo abbastanza. Il che, per noi che non sappiamo amare bene neppure quelli che amiamo, è tremendamente difficile, sopratutto in tempi come questi di odio, variamente coniugato, mascherato persino, spesso, come difesa della fede. Difficile, sì, ma che, nondimeno, deve divenire possibile, per la sua Grazia. Che faccia di noi, con Lui, dei risorti.

I testi che la liturgia di questa 5ª Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.14, 21b-27; Salmo 145; Libro dell’Apocalisse, cap.21, 1-5a; Vangelo di Giovanni, cap. 13, 31-33a. 34-35.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi è memoria di Pietro Celestino V, monaco e papa coraggioso.

Pietro era nato ad Isernia nel 1215, penultimo dei dodici figli di Angelo Angelerio e Maria Leone, due contadini semplici e buoni. Dopo aver sperimentato ancora ragazzo il duro lavoro dei campi, nel 1231 decise di entrare in un monastero benedettino, ma se ne allontanò presto, insoddisfatto per lo stile di vita che vi regnava, ritirandosi a vivere da eremita, in una grotta sul fiume Aventino, nei pressi di Palena. Nel 1238 si recò a Roma dove, l’anno successivo, fu ordinato sacerdote. Tornato in Abruzzo, si stabilì sul monte Morrone, raggiunto presto da altri uomini desiderosi di servire il Signore in solitudine, lavoro e preghiera. Pietro li organizzò in comunità come “eremiti di san Damiano” (in seguito saranno chiamati “Celestini”), dando loro una regola che venne approvata dal papa Gregorio X nel 1273. Nel 1294, a due anni dalla morte di papa Nicolò IV, i dodici cardinali riuniti in conclave non erano ancora riusciti ad accordarsi sul nome del successore. Pietro prese allora l’iniziativa di scrivere loro una lettera durissima di biasimo e i cardinali, in buona o in mala fede, pensarono bene, nella seduta del 5 luglio 1294, di eleggere papa lui, che prese il nome di Celestino V. Il vecchio monaco, quasi ottantenne, scoprì tuttavia presto di essere una pedina impotente di giochi e di trame che passavano sopra la sua testa. E pensò che non era così che aveva desiderato servire la sua Chiesa. Sicché, dopo solo cinque mesi dall’elezione, disse: me ne vado. Depose la tiara, lasciò il pastorale, si spogliò del manto e riprese il suo semplice saio. Il cardinal Caetani, che era sulla bocca di tutti come suo probabile successore e che si era dato un gran daffare per convincerlo a quel passo, gli promise che sarebbe potuto tornare tranquillo al suo eremo. Ma, divenuto Bonifacio VIII, dimenticò la sua promessa, e pensò più prudente, per evitare ogni possibile fronda, imprigionare il vecchio, che morì nella rocca di Fumone, nei pressi di Anagni, solo e dimenticato, il 19 maggio del 1296. Diciassette anni dopo, un altro papa, Clemente V, forse anche per farsi perdonare, lo dichiarò santo.

Noi, Dorvando, che alcuni di voi conoscono e a cui questa nostra chiesa di Goiás e lo spazio dell’antico monastero, devono molto, per il suo servizio umile, silenzioso, tenace, senza risparmio, l’abbiamo festeggiato oggi, cantandogli l’alleluia, alla fine dell’Eucaristia, e ricordando anche gli altri amici e amiche, di qui e di lì, che hanno compiuto gli anni tutti insieme giovedì scorso (Laura, moglie del nostro Rafael, Dona Antolinda, un monumento della nostra città, Roberto, un amico fedele di lunga data, e anche Neto, che, scomparso tragicamente da oltre un anno, deve però aver trovato finalmente pace nell’abbraccio di Dio). Li mettiamo tutti anche nella vostra preghiera.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui e, prendendo in qualche modo spunto dalla memoria di papa Celestino V, e dalla tematica a essa connessa della chiesa e della sua gerarchia, vi offriamo in lettura una riflessione di don Michele Do, tratta dal suo prezioso libretto “Amare la Chiesa” (Qiqajon). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La gerarchia occorre, è nell’evangelo. È quella che dice Ireneo: “Colei che presiede all’amore”, che serve all’amore, che serve la verità, ma quella evangelica. Se il cristiano ha il dovere di non relativizzare l’assoluto, la gerarchia ha il dovere di non assolutizzare il relativo: questo è un delitto. Siamo nella libertà. Il compito del magistero è dire: “Questo mi sembra evangelo, ma non ve lo garantisco”. Faccia piuttosto la gerarchia lo sforzo di impegnarsi sugli assoluti dell’evangelo. Contesti il mondo ma con dei veri valori. La chiesa deve chiedere, avere il coraggio dell’impopolarità, ma con parole vere. Perché la maledizione non risuoni nell’eterno, la chiesa deve avere il coraggio di maledire nel tempo i colpevoli (ad esempio, i responsabili del Biafra, l’Inghilterra che specula sulle armi, e gli altri). La chiesa deve respirare nella dimensione delle beatitudini, altrimenti tradisce l’evangelo. Le beatitudini non sono ascetismo, sono maniera di essere. (Michele Do, Amare la Chiesa).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Maggio 2019ultima modifica: 2019-05-19T22:30:46+02:00da fraternidade
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