Giorno per giorno – 11 Febbraio 2019

Carissimi,
“Accorrendo da tutta quella regione cominciarono a portargli sui lettucci quelli che stavano male, dovunque udivano che si trovasse. E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano” (Mc 6, 55-56). Stamattina, durante la condivisione della Parola, Fernando sottolineava la casuale coincidenza di questo vangelo con la memoria liturgica delle apparizioni mariane di Lourdes, il luogo in cui una moltitudine di fedeli, alla ricerca della salute fisica, psichica o spirituale, ripercorre, con lo stesso atteggiamento di fede, il cammino di quelle folle che portavano i loro malati fino a Gesù, per “potergli toccare almeno la frangia del mantello”, nella speranza di essere guariti. Una fede, come quella che porta ai numerosi santuari che sorgono nel mondo, spesso, semplice, ingenua, qualche volta ai limiti della superstizione, e in quanto tale, a rischio di manipolazioni, che tuttavia ripropone una certezza di fondo, che Dio è energia di cura, di perdono, di riconciliazione, di vita. Di cui anche noi siamo chiamati ad essere strumenti.

La Memoria di Nostra Signora di Lourdes, che la Chiesa cattolica celebra oggi è la maniera per ricordare il rendersi presente della madre di Gesù nella nostra vita e in quella della società e magari della Chiesa, per insegnarci come si dovrebbe essere. Presenti sempre anche noi ad ogni necessità altrui. Ridando vita nella nostra storia al Principio della cura. La memoria trae origine dalle apparizioni avute, tra l’11 febbraio e il 16 aprile 1858, da una giovane contadina analfabeta, Bernadette Soubirous. Una giovane sconosciuta, che Bernadette battezzò subito col nome di Aquerò (Quella là), in seguito le si rivelò con un nome ben più difficile a dirsi e ad intendersi: “Que soy era Immaculada Councepciou”. Aggiunse poi che era tempo che il mondo si desse una mossa. Ma il mondo sembra aver continuato imperterrito. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Noi in questo giorno ricordiamo anche Abraham Johannes Muste, profeta di pace e di nonviolenza, e di Marie-Dominique Chenu, teologo del Concilio.

Abraham Johannes Muste nacque l’8 gennaio 1885 a Zierikzee (Olanda), figlio di Adriana Jonker e Martin Muste. All’età di sei anni si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, di cui acquisì la cittadinanza. Sposato ad Anna Huizenga, nel 1909 fu ordinato pastore della Chiesa riformata. Ma, presto, deluso dagli insegnamenti di questa, passò ad essere pastore della Chiesa congregazionale, lasciandosi poi conquistare dal misticismo pacifista della Società degli Amici (quaccheri). A cavallo tra gli anni venti e trenta, si coinvolse nelle lotte del movimento sindacale, scivolando su posizioni marxiste e trozkiste. Finché, un giorno del 1936, entrando in una chiesa durante un viaggio in Europa, sentì più forte che mai la convinzione che era la chiesa la sua vera casa e il suo cammino, con la proposta evangelica della pace e della nonviolenza. Negli anni della proliferazione nucleare, Muste si persuase che il mondo fosse entrato in una nuova epoca buia e che i cristiani erano chiamati a creare piccole oasi di coscienza e ragionevolezza. Ad un cronista che gli chiese un giorno se pensava di cambiare il mondo facendo veglie all’esterno delle basi nucleari, rispose: “Non lo faccio per cambiare il mondo. Lo faccio per impedire al modo di cambiarmi”. Ripetutamente arrestato per le manifestazioni e proteste organizzate, fu anche uno degli artefici dell’opposizione alla guerra in Vietnam. Nel 1966, già ottantaduenne fu arrestato a Saigon, per aver tentato di manifestare davanti all’ambasciata Usa. Morì l’11 febbraio 1967 dopo esser tornato da un viaggio in Vietnam del Nord, dove potè testimoniare di persona gli effetti dei bombardamenti nordamericani. Soleva dire: “Non esiste una via alla pace, la pace è la via”.

Marcel Chenu era nato a Soisy-sur-Seine (Francia), il 7 gennaio 1895. Attratto dalla vita contemplativa, dalla liturgia, dallo studio e dalla vita di comunità, come egli stesso ebbe a confessare in seguito, entrò, diciottenne, nell’Ordine Domenicano, presso il convento di Le Saulchoir, a Kain, in Belgio. Qui fece la sua prima professione religiosa nel 1914, assumendo il nome di Marie-Dominique. Si recò, poi a Roma, a studiare teologia, all’Angelicum, sotto la guida del padre Réginald Garrigou-Lagrange. Fu ordinato presbitero nel 1919. Tornato in patria, l’anno successivo, fu nominato professore al Centro di Studi di Le Saulchoir (che nel 1939, si sarebbe trasferito a Étiolles, nei pressi di Parigi), dove rimase fino al 1942, quando fu costretto ad allontanarsene per la condanna del suo libro Une École de Théologie, uscito nel 1937 e diffuso per altro soltanto in sette/ottocento esemplari tra gli amici e gli allievi. La condanna intendeva colpire le proposte innovative di Chenu sulla necessità di diversi “stili teologici”, imposta dai mutamenti epocali in atto. Lasciato l’insegnamento di Le Saulchoir, Chenu fu assegnato al convento parigino di Saint-Jacques, dal quale fu allontanato nel febbraio del 1954, e inviato a Rouen, per il suo coinvolgimento nella questione dei preti operai. Solo nel giugno del 1962 farà ritorno definitivamente a Parigi. Dal settembre al dicembre dello stesso anno, fu chiamato come perito al Concilio Vaticano II. La Costituzione conciliare Gaudium et Spes risente del contributo della sua teologia dell’incarnazione, della creazione, della praxis, della storia. Quando Chenu compì 70 anni, fu festeggiato alla presenza del cardinal Feltin, che lo lodò per aver accettato umilmente e senza disobbedire le sanzioni imposte da Roma. Chenu balzò in piedi e disse: “Eminenza, non era obbedienza, perché l’obbedienza è una virtù morale, piuttosto mediocre. Era la fede che avevo nella parola di Dio, davanto alla quale gli scontri e gli incidenti di percorso non sono niente. È perché avevo fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa”. Dopo il 1966, padre Chenu visse nel convento di Saint-Jacques, dove morì l’11 febbraio 1990.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.1, 1-19; Salmo 104; Vangelo di Marco, cap.6, 53-56.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Il 13 maggio 1992, Giovanni Paolo II, a cui solo un anno prima era stato diagnosticato il morbo di Parkinson, istituì la “Giornata mondiale del malato”, da celebrarsi l’11 febbraio, nella memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Nella lettera che la creava, il papa, tra l’altro, scriveva: “La Chiesa che, sull’esempio di Cristo, ha sempre avvertito nel corso dei secoli il dovere del servizio ai malati e ai sofferenti come parte integrante della sua missione, è consapevole che «nell’accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole e malata, vive oggi un momento fondamentale della sua missione». Essa inoltre non cessa di sottolineare l’indole salvifica dell’offerta della sofferenza, che, vissuta in comunione con Cristo, appartiene all’essenza stessa della redenzione. La celebrazione annuale della “Giornata Mondiale del Malato” ha quindi lo scopo manifesto di sensibilizzare il Popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi; di aiutare chi è ammalato a valorizzare, sul piano umano e soprattutto su quello soprannaturale, la sofferenza; a coinvolgere in maniera particolare le diocesi, le comunità cristiane, le Famiglie religiose nella pastorale sanitaria; a favorire l’impegno sempre più prezioso del volontariato; a richiamare l’importanza della formazione spirituale e morale degli operatori sanitari e, infine, a far meglio comprendere l’importanza dell’assistenza religiosa agli infermi da parte dei sacerdoti diocesani e regolari, nonché di quanti vivono ed operano accanto a chi soffre”. A causa delle declinanti condizioni di salute, Benedetto XVI, scelse questo giorno, nel 2013, per annunciare la sua rinuncia al ministero di vescovo di Roma, gesto inedito e profetico nella storia della Chiesa.

Anche, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Marie-Dominique Chenu, tratto dal suo libro “La dottrina sociale della Chiesa” (Queriniana). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
“Con la teologia del popolo di Dio, introdotta come secondo capitolo della Lumen gentium, si è verificata la rivoluzione copernicana dell’ecclesiologia cristiana contemporanea. In tal modo si è ridato spazio e dinamica a tutta la riflessione sulla chiesa ponendola in una prospettiva storica e di comunione. È su tale base che si è aperta la reale possibilità, anzi l’urgenza, di superare la fase della dottrina sociale cristiana, per impostare una riflessione sul rapporto fra storia della salvezza e storia umana, abbandonando tutte le tentazioni competitive rispetto alle società civili e la pretesa di impegnarsi in un discorso tecnico sui vari problemi dello sviluppo e dell’equilibrio sociale” (G. Alberigo, La Costituzione Gaudium et spes in rapporto al magistero globale del concilio). La Gaudium et spes non è un semplice restauro della dottrina sociale; essa è un elemento decisivo dell’inversione di tendenza rispetto allo schema che comandava la dottrina sociale. Di questa posizione noi possiamo offrire la linea e il nucleo, applicando la nozione di ‘segni dei tempi’, l’espressione evangelica alla quale Giovanni XXIII ha dato credito in questa materia. ‘Segni dei tempi’: è l’espressione adeguata per significare lo sforzo nuovo dei cristiani nella loro ermeneutica della società e per qualificare la nuova coscienza della chiesa nello svolgimento della storia attuale. Invece di cercare di applicare una dottrina generale ai casi particolari, l’attenzione si concentra sulla lettura della storia come tale, per distinguere in alcuni fatti il loro valore simbolico, nella misura in cui questi avvenimenti costituiscono dei punti di convergenza per molte persone e esprimono in qualche misura la loro attesa. Leggere il senso divino o evangelico di questi eventi non significa affatto astrarli dalla loro realtà terrena; è in se stessi, nella loro piena e propria pregnanza umana, che essi sono segni. È proprio in questa realtà che la chiesa legge in essi un’attitudine a divenire richiamo al Vangelo e soggetto della grazia. Così la promozione dei popoli del Terzo Mondo nelle giovani chiese con la loro liturgia e la loro teologia della liberazione: così la socializzazione in forza dei rapporti di produzione; così la mondializzazione dei problemi, ecc. Aggiungiamo che questo emergere di valori non può essere percepito che mediante e nell’azione. Leggere i segni dei tempi è essere provocati all’azione e, nello stesso tempo, non li si legge che perché si agisce simultaneamente; essi non saranno veramente segni dei tempi se noi non li vivremo. Indubbiamente questo contro ogni metodo idealista, è il test del realismo cristiano, secondo il quale si ‘fa la verità’ (Gv 3, 21). (Marie-Dominique Chenu, La dottrina sociale della Chiesa).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Febbraio 2019ultima modifica: 2019-02-11T22:27:44+01:00da fraternidade
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