Giorno per giorno – 06 Luglio 2018

Carissimi,
“I farisei dicevano ai suoi discepoli: Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori? Gesù li udì e disse: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 11-13). La chiesa nasce da questa chiamata dei peccatori (ekklesia, da ek-kaleo, convocare, chiamare da). La prima immagine di chiesa è proprio quella che ci è offerta dal vangelo di oggi, della cena (una sorta di anteprima della messa) a casa di Matteo, con Gesù e i suoi seduti (o sdraiati, secondo il costume del tempo) a tavola “con molti pubblicani e peccatori” (v. 10). Né pentiti, né confessati. E i farisei, da bravi benpensanti e religiosi, che si tengono a debita distanza, storcendo il naso. A volte, viene proprio da pensare dove siano con la testa molti cristiani quando leggono il vangelo, se, con tutti i richiami di Gesù, continuano a scegliere la parte dei farisei. Noi dovremmo cominciare a preoccuparci quando notori peccatori evitano di frequentare le nostre chiese, perché questo potrebbe segnalare l’assenza di Gesù. Il quale, se è vero che ogni tanto si concedeva anche alle case dei farisei, in genere, però, preferiva quelle della gente poco per bene, senza curarsi delle chiacchiere che avrebbero fatto sul suo conto. È la compagnia della gente poco per bene, infatti, che ci rivela il volto della grazia di Dio, del suo amore non basato su del resto improbabili meriti, ma solo sulla passione e sull’incanto che nutre per noi, come si sia. Che, finirà per catturare, prima o poi, pure il nostro, rendendoci capaci (anche se solo un po’) di testimoniare il suo. Chiesa di Matteo, chiesa di peccatori graziati.

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Amos, cap.8, 4-6.9-12; Salmo 119; Vangelo di Matteo, cap.9, 9-13.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi ottantatre anni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione, tratta questa volta dal suo libro “L’arte di essere pazienti” (Neri Pozza Editore), che è, così. per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Se osserviamo il percorso della nostra esistenza, dall’infanzia alla morte, vediamo quanto siamo allevati soprattutto con l’affetto, con l’affetto reciproco, e come ci sentiamo quando siamo esposti all’affetto degli altri. Inoltre, quando noi stessi proviamo sentimenti d’affetto, vediamo come la cosa naturalmente ci riguardi nell’intimo. Non solo, ma il comportamento e i pensieri più affettuosi e più sani sembrano essere molto più benefici al nostro corpo, in termini di conseguenze sulla salute e sanità fisica, e così via. Bisogna sottolineare anche quanto il contrario sembri rovinoso per la salute. Per questi motivi credo che sia possibile dedurre che la nostra fondamentale natura umana sia caratterizzata dalla gentilezza. Stando così le cose, allora ha ancor più senso cercare di vivere più in armonia con tale basilare natura gentile del nostro essere. Esistono però enormi conflitti e tensioni non solo nella nostra mente individuale, ma anche all’interno della famiglia, nell’interazione con gli altri e a livello sociale, nazionale, globale, e così via. Come possiamo spiegare questo fatto? Uno dei fattori che, credo, contribuisce al sorgere del conflitto è la nostra facoltà immaginativa o, in altre parole, l’intelligenza. Ed è sempre la nostra intelligenza che può trovare le vie e i mezzi per superare tale conflitto: così, nell’utilizzo dell’intelligenza umana per superare questo conflitto, creato dalla stessa intelligenza umana, la compassione umana ha un ruolo importante. Osservando la realtà, è molto evidente che il miglior modo per superare il conflitto è avere uno spirito di riconciliazione, anche con se stessi. Questo spirito ha molto a che fare con la compassione. Un aspetto della compassione è il rispetto dei diritti e delle idee degli altri, e questa è la base per la riconciliazione. Credo che lo spirito umano di riconciliazione basato sulla compassione agisca a grande profondità, che la persona se ne renda effettivamente conto o meno. Perciò, dato che la nostra essenziale natura umana è la gentilezza, non importa attraverso quanta violenza ed episodi negativi dobbiamo passare, alla fine l’unica soluzione possibile è tornare al fondamentale sentimento umano, cioè l’affetto. In tal modo, l’affetto dell’uomo o la compassione non sono solo una questione religiosa, ma un fattore pressoché indispensabile della nostra vita quotidiana. Tenendo presente questo, la pratica della tolleranza diventa veramente meritevole, e non importa quanto sia difficile, perché ha enorme valore. (Dalai Lama, L’arte di essere pazienti).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2018ultima modifica: 2018-07-06T22:50:18+02:00da fraternidade
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