Giorno per giorno – 26 Maggio 2018

Carissimi,
“Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10, 13-15). I bambini sono figura dell’estrema povertà, gli ultimi degli ultimi. Senza voce in capitolo, e tuttavia chiassosi, senza potere decisionale, ma anche incapaci di giudicare, non autosufficienti e perciò dipendenti in tutto dagli altri. In quanto tali sono al primo posto nel Regno, ne esprimono la priorità, la cura nei loro confronti ne testimonia la presenza. Su questo terreno – la relazione con i poveri di ogni specie – siamo continuamente sfidati, come chiesa, come società, come individui. Una chiesa incapace di compassione, misericordia, tenerezza, nei confronti degli ultimi della società, non può che essere una chiesa dominata dall’Avversario. Siano essi giudicati (da chi?) colpevoli o innocenti, non importa: nessuno è colpevole, da quando lui ha detto sui suoi uccisori: “Non sanno quello che fanno”. Nessuno sarebbe innocente, se Lui non si fosse addossato la colpa di tutti. La condanna pronunciata da chi si reputa giusto su chi egli giudica peccatore, è una colpa maggiore di ogni altra, come ci insegna il vangelo. È questo il peccato che suscita l’indignazione di Gesù. E noi dovremmo ricordarcene ad ogni passo. Per non essere esclusi, escludendo altri, dalle relazioni nuove del Regno, improntate alla sua testimonianza.

Il calendario ci porta oggi la memoria di Filippo Neri, il prete dell’allegria, di don Cesare Sommariva, “don Cece”, maestro e preteoperaio, e di Abd el Kader, mistico islamico.

Filippo Neri era nato a Firenze il 21 luglio 1515, nella famiglia di un notaio. Per un certo tempo, aveva pensato di seguire il padre nella sua professione. Poi cambiò d’idea e andò via dalla città, trasferendosi prima a Cassino e poi, nel 1538, a Roma. Lí cominciò a lavorare tra i ragazzi delle borgate e li lasciava fare tutto il casino che volevano, perché pensava che comportarsi male non consiste nel contravvenire il galateo, ma è altro. Poi, a quelli che se la sentivano, gli insegnava a leggere la Bibbia, a cantare e li portava perfino a messa. Fondò una confraternita di laici che si incontravano per pregare e per dare aiuto ai pellegrini e ai malati. A 36 anni il suo confessore decise che era bene che fosse ordinato prete e Filippo obbedì, dando vita, poco dopo, all’Oratorio, una congregazione religiosa di sacerdoti, impegnati in particolar modo nell’educazione dei giovani. A scanso di possibili delusioni, pregava spesso così: “Signore, non aspettare da me se non male e peccati; Signore, non ti fidar di me, perché cadrò di certo, se non m’aiuti”. La gente faceva fila davanti al confessionale, perché dicevano che sapesse leggere nei cuori. Morì ottantenne, il 26 maggio 1595.

Cesare Sommariva era nato a Milano l’8 gennaio 1933 in una agiata famiglia della borghesia milanese. Conseguita la maturità classica, era entrato in seminario e, dopo gli studi di teologia, fu ordinato prete, il 26 giugno 1955. Inviato come coadiutore nella parrocchia di Pero, nell’hinterland milanese, vi restò fino al 1970. Nel frattempo aveva conosciuto e stretto amicizia con don Lorenzo Milani, con cui condivise il progetto di restituire la parola ai poveri che ne erano stati espropriati, favorendo l’acquisizione di un pensiero autonomo, capace di sottrarsi ai luoghi comuni e alle sirene dell’ideologia dominante. Nacque così l’esperienza delle scuole popolari di quartiere e dei doposcuola. Nel 1970 fu incaricato con altri due confratelli di dare vita a una nuova parrocchia nella periferia della città operaia di Sesto San Giovanni. Dopo quattro anni chiese ed ottenne di iniziare la vita di prete operaio. Assunto alla Redaelli di Rogoredo, una grande acciaieria nella periferia Sud di Milano, vi rimase fino alla crisi dell’azienda, condividendo con gli altri operai il massacrante orario di lavoro dei tre turni. Nel 1977 ottenne di fare vita comune con altri due preti operai: nacque così la Comunità San Paolo, a cui nel 1980 fu affidata la cura pastorale del quartiere Stella di Cologno Monzese. Nel 1986, ormai pre-pensionato, in seguito alla definitiva chiusura della Redaelli, avvenuta nel 1984, chiese al card. Martini di essere inviato come prete fidei donum in Salvador, negli anni dello scontro tra il dittatore Duarte e le forze della guerriglia raccolte nel Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Marti. Nel 1992 Mons. Rivera y Damas, che, nel 1980, era succeduto a mons. Romero, lo nominò parroco della parrocchia di San Roque, nella periferia più povera della capitale. Colpito da una forma di epatite, che andò progressivamente aggravandosi, continuò a spendersi al limite delle forze, fino al definitivo rientro in Italia, nel 2004. Qui, nell’affrontare la malattia che faceva il suo corso, visse momenti di sofferta depressione e di abbandono radicale al suo Dio. Fino alla morte, avvenuta il 26 (ma, secondo altre fonti che scopriamo all’ultima ora, il 19) maggio 2008. La Chiesa di Milano ha scritto di lui: “A volte cerchiamo modelli di vita perché ci aiutino a camminare. Don Cesare non è un santino da immaginetta, ma un eccezionale prete scomodo che ha seguito il Signore con fedeltà ed amore”.

Abd el Kader era nato nel villaggio di Guetna, poco distante da Mascara, in Algeria, nel 1808. Era stato educato nella zaouia diretta da suo padre, Si Mahieddine e, in seguito, aveva completato la sua formazione a Arzew e a Orano, sotto la guida di maestri prestigiosi. Dopo la presa d’Algeri, nel 1830, padre e figlio parteciparono alla resistenza, che elesse Abd el Kader emiro e gli affidò il comando del fronte anti-coloniale. Arresosi ai francesi nel 1847, Abd el Kader, dopo sei anni di prigionia in Francia, scelse la via dell’esilio, stabilendosi, nel 1855, a Damasco, in Siria, dove abiterà fino alla morte nella casa di Ibn Arabi, il mistico, vissuto sei secoli prima, che egli considerava suo maestro. Non lascerà, più il paese, se non per brevi viaggi e un pellegrinaggio alla Mecca, consacrando il suo tempo alla meditazione, alla preghiera, all’insegnamento e alla beneficienza. Nel 1860, i moti di Damasco gli fornirono l’occasione di mostrare la grandezza del suo animo. Dimentico dei soprusi a suo tempo subiti, salvò migliaia di cristiani dal massacro, inducendo i rivoltosi a ritirarsi. Celebrato e onorato, Abd el Kader si spense a Damasco il 26 maggio 1883.

I testi che la liturgia del giorno propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera di Giacomo, cap.5, 13-20; Salmo 141; Vangelo di Marco, cap.10, 13-16.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

La riflessione sul vangelo è stata accompagnata, qui da noi, dalle morti violente di ieri e di oggi, due ad opera della polizia, una in un regolamento di conti tra trafficanti di droga. Vite, in due casi almeno, di giovanissimi, che valgono, agli occhi di molti, meno di zero. Gente di cui i più non sanno nemmeno il nome. Di quello di stasera, sappiamo il soprannome, ‘‘Sombra” (ombra, da voi). Le loro madri, straziate, li sanno bene i nomi. E anche Lui li sa. E chiederà un giorno conto di assenze e indifferenze nostre, come anche del paradosso di una società, non solo inadempiente ai suoi doveri minimi, ma attivamente cattiva maestra, che però si sente in diritto di giudicare e condannare.

È tutto, per stasera, e noi ci si congeda, offrendovi in lettura il brano di un fax di Cesare Sommariva, inviato dal Salvador il 16 febbraio 1991, apparso sulla rivista Pretioperai, n. 119-120, dell’aprile 2018, col titolo “Che continuare a dirvi?”. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Che debbo dirvi del pianto di un bimbo di terzo grado di denutrizione, con diarrea, che sta per morire? Come si può narrare il pianto di un bambino così, di 4 mesi, con la madre incinta un’altra volta, che alla notte bussa al portone sotterraneo? Che si può dire? Basta dirvi che coprì il rumore dello sparo dei fucili e degli elicotteri? È un pianto strano. Non so a cosa assomiglia. Per cui non posso descrivervelo. Posso descrivervi cosa sento di fronte ad esso? Non somiglia a nessun sentimento provato e assomiglia a tutti i sentimenti possibili. È come un ultrasuono di sentimenti. È un suono che si allea e si comunica con tutti gli altri pianti di bambini nei bunker bombardati o nei campi di battaglia o nelle champas o… Qui con me ora c’è una bimba. 8 anni. Non ha né madre, né padre, ha solo la nonna che viene ad aiutare in questa cucina parrocchiale. Quindici giorni fa, quando ha iniziato a venire qui, si sedeva sugli scalini che portano nel sotterraneo e piangeva. Non parlava. Quando la guardavo negli occhi, raddrizzava solo la bocca. Io le cantavo il canto spagnolo: Canta y no llores. Lei non lo ripeteva. Stava zitta con le lacrime che le cadevano fino al limite della bocca. Poi ha iniziato – l’ho udita una volta – a cantarlo con un’altra bimba. Da quel momento non l’ho più vista piangere e ora sorride e mi segue come avesse trovato un padre e questo mi fa pensare a tante cose. Ma com’è possibile comunicare queste cose? E quand’anche riuscissi a comunicarvele tutte e dieci, cento, a che servirebbe? Ciascuno di voi potrebbe raccontare altre cose simili. Per cui mi limito a dire: domenica notte il pianto di un bimbo denutrito ha coperto il rumore della fucileria… L’abbiamo accompagnato con Ceci e Rey all’ospedale e poi la mamma è venuta qui alla consulta di martedì e ha abortito e il padre ha detto che ha abortito perché qui l’hanno visitata… Bisogna che il padre non sappia dove è l’Hogarcito: lui è un militare e può andare a sparare là e quindi occorre chiudere a chiave il cancello dell’Hogarcito, sennò… E così via. (Cesare Sommariva, Che continuare a dirvi?).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Maggio 2018ultima modifica: 2018-05-26T22:20:36+02:00da fraternidade
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