Giorno per giorno – 31 Agosto 2017

Carissimi,
“Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! In verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire…” (Mt 24, 45-48). Vangelo, a prima vista, strano e persino inquietante, nelle parole di Divina, quello che si è letto stasera con la comunità, riunita nella casetta dove abitano strettini Luciana e Robson con i loro quattro cuccioli, ormai adolescenti, Viviane, Vitor, Everson e Andressa. C’erano anche padre Geraldo, e i due da poco arrivati tra noi, Davi, che è il nuovo segretario nazionale della Pastorale della Gioventù, e Jaqueline, giovane avvocata, pure lei della Pastorale della Gioventù. Giunti a rilanciare in forma nuova la vita comunitaria nel monastero dell’Annunciazione. I capitoli 24 e 25 del vangelo di Matteo costituiscono quello che è chiamato il discorso escatologico, o degli eventi ultimi, non però per metterci in apprensione, circa il quando e il dove – questa era anche la preoccupazione dei discepoli e delle prime comunità, ma per esortarci a vivere con coerenza la buona notizia di Gesù. Che tornerà, sì, in un giorno imprecisato, a chiedercene conto, inatteso come un ladro. Non nei termini di un tutto sommato sterile perfezionismo individuale, ma di una testimonianza, controcorrente, dei valori di quel regno che, in ogni ambito esistenziale, si caratterizza come servizio disinteressato, sotto i segni della cura, del dono di sé, della liberazione dal male. Come aggiungeva Rafael, il tono minaccioso che il discorso sembra assumere, non è per metterci paura di Dio, non avremmo più, infatti, la gioiosa notizia dell’amore del Padre, ma è il modo con cui Gesù sottolinea l’importanza e l’urgenza della cosa. In questo senso, diceva ancora, non c’è bisogno di aspettare la fine del mondo, basta lasciare che egli ci interroghi ogni sera sulla qualità della nostra testimonianza.

Il calendario ci porta oggi le memorie di Mons. Leónidas Proaño, pastore povero tra i suoi indigeni; del Card. Carlo Maria Martini, “padre della Chiesa”, e di John Leary, giovane al servizio della vita e della pace. A tempo pieno.

Vescovo di Riobamba (Equador), taita (papà) e liberatore degli indios, profeta della Chiesa latino-americana, Leónidas Eduardo Proaño Villalba era nato il 29 gennaio 1910, a San Antonio de Ibarra, nella Provincia di Imbabura, in Ecuador, figlio unico, solo perché i fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. Quando, terminata la scuola, stava frequentando filosofia, decise di farsi prete, per essere “parroco di campagna e dedicarsi agli indigeni”. Ordinato presbitero nel 1936 e consacrato vescovo di Riobamba nel 1954, scelse di ascoltare, condividere, dialogare con la gente, vittima secolare dell’egoismo, della menzogna istituzionalizzata, della miseria e della disperazione. Diede così avvio alla “nuova evangelizzazione” che intendeva promuovere l’organizzazione contadina, la sua autonomia economica e il riscatto della cultura indigena. Lo chiamarono il “vescovo rosso”. Lui rispose: “Non sono marxista, né comunista, cerco solo di essere fedele al Vangelo”. Disse anche: “Il capitalismo è freddo, come è freddo tutto ciò che è metallico. Non gli importa degli uomini. Gli importano i profitti. E gli uomini e i popoli, gli importano solo nella misura in cui gli garantiscono dei profitti. Famelico com’è di profitti, non esita a divorare uomini e popoli. È freddo, senza cuore”. Quando, compiuti 75 anni, si ritirò dalla guida della diocesi, accettò le sofferenze causate da un cancro, senza ricorrere a cure straordinarie. Le sue ultime parole, in piena lucidità di mente, furono espressione di un drammatico esame di coscienza e denunciarono la grande responsabiltà della Chiesa per il peso sopportato dagli indios durante i secoli. Il Taita-Vescovo entrò nella casa del Padre, accolto da milioni di fratelli indigeni, il 31 agosto 1988.

Nato a Torino il 15 febbraio 1927, Carlo Maria Martini entrò diciassettenne nella Compagnia di Gesù, nel 1944, e fu ordinato presbitero dal Card. Maurilio Fossati, il 13 luglio 1952. Dopo aver conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 1958, proseguì gli studi presso il Pontificio Istituto Biblico, di cui nel 1969 divenne rettore, affermandosi nel contempo come biblista di fama internazionale. Nel 1978 venne nominato da Paolo VI rettore dell’Università Gregoriana. E nella Quaresima dello stesso anno venne chiamato in Vaticano a predicare il ritiro quaresimale al Papa e alla curia romana. Giovanni Paolo II, nel dicembre dell’anno successivo, lo elesse Arcivescovo di Milano, consacrandolo personalmente il 6 gennaio del 1980. Nella diocesi ambrosiana, padre Martini si fece promotore della “Scuola della Parola” per facilitare ai giovani l’incontro con la Sacra Scrittura e il suo approfondimento, secondo il metodo della lectio divina. Altra iniziativa, a suo modo clamorosa, fu la “Cattedra dei non credenti”, con la quale invitò la Chiesa a porsi in ascolto delle posizioni che, su varie tematiche che interpellano la coscienza dell’uomo contemporaneo, sono venute maturando in ambito laico e in ambienti che non condividono la fede cristiana, sviluppando con essi un dialogo franco, rispettoso e reciprocamente arricchente. Questa attitudine all’ascolto di una Parola, che ci raggiunge contemporaneamente dalla Scrittura, dall’evento di Gesù e dall’umanità concreta in cui ci muoviamo e che si traduce nella proposta di una verità non preconfezionata, ma da ricercare ogni volta insieme all’altro che incontriamo, ci pare il segno che caratterizzò il ministero e il magistero pastorale del card. Martini. Compreso quello che copre l’arco di tempo successivo alle dimissioni dalla cattedra di Milano, per sopraggiunti limiti di età, nel 2002, durante il tempo trascorso nell’amata Gerusalemme, e, dopo il ritorno in Italia, nel 2007 fino al ritorno alla casa del Padre, avvenuto nel pomeriggio del 31 agosto 2012, all’Aloisianum di Gallarate. Le ultime parole, nella messa concelebrata il giorno prima della morte, le ha pronunciate lui, che da mesi non aveva più voce: “La messa è finita, andate in pace”. Papa Francesco l’ha definito “padre della Chiesa” e “profeta e uomo di discernimento e pace”.

Non sono molte le notizie che abbiamo su John Leary, ma sappiamo che, quando l’Amico gli si fece incontro definitivamente, era il 31 agosto 1982. Lui, come ogni giorno, stava percorrendo di corsa la strada che separa il Centro di Pax Christi, a Cambridge, dalla Haley House, la comunità del Catholic Worker a Boston, dove viveva. Un infarto fulminante lo fermò a metá del cammino. John aveva solo ventiquattr’anni, di cui, gli ultimi sei, li aveva trascorsi a Boston, studiando all’Harvard College e dedicando il resto del suo tempo ai prigionieri, ai senzatetto e agli anziani o coinvolgendosi in proteste e manifestazioni contro le spese militari, la pena di morte, l’aborto. Un paio di volte, era persino finito dentro. Giusto poco prima di morire si era laureato con pieni voti e lode in Scienze Religiose ad Harvard. Quanti lo incontravano restavano colpiti dalla sua allegria, dalla sua semplicità, dalla sua saggezza, così rara nei giovani della sua età. John era cresciuto in una modesta famiglia cattolica di origine irlandese nel New England. Ispirato da figure come Dorothy Day e Thomas Merton, aveva scoperto la via nonviolenta della croce di Gesù, nella dedizione agli altri, e se ne era appassionato. Partecipava ogni giorno all’Eucaristia, passava ore a leggere la Bibbia, pregava il rosario, e faceva spesso ritiri in un monastero trappista locale. Mentre faceva jogging, soleva recitare la preghiera del Nome. Sicché, quell’ultimo pomeriggio, dev’essere successo che Lui, a sentirlo per l’ennesima volta chiamare: “Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivo”, gli si è fatto incontro e gli ha detto: Eccomi. E se l’è portato via.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Tessalonicesi, cap. 3,7-13; Salmo 90; Vangelo di Matteo, cap. 24, 42-51.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano del Card. Carlo Maria Martini. Tratto dal suo discorso per la vigilia di S.Ambrogio, tenuto a Milano il 5 dicembre 1998, che ha come titolo “Il seme, il lievito e il piccolo gregge”, è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La ricerca del bene per la città di tutti ha regole proprie, attraverso le quali non si può non passare. Altrimenti tale ricerca perde, agli occhi della città, la sua trasparenza: sono le regole del consenso dei cittadini stabilite dalle modalità democratiche e quelle della costruzione del consenso. Esse non sono pure tecniche o pure metodologie, ma sostanza stessa dell’atto libero di decisione; passano per il convincimento e la pazienza, per la stessa graduazione dei valori, perfino per il duro sacrificio di alcuni di essi. Sembra invece che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società. Il percorso del cristiano verso la sua testimonianza politica è quindi oggi complesso, e tuttavia possibile. Si potrebbe leggerlo – in compagnia di Ambrogio – nella storia di Giuseppe in Egitto, modello di corretto rapporto con le persone, con le cose, con la politica. Uomo religioso disperso dentro il mondo idolatrico e totalitario dell’Egitto; schiavo ma più libero di colui che è libero, perché “teme di perdere tutte le cose che ha accumulato colui che le ha accumulate per non servirsene” (De Jos., 21), capace prima di tutto di “governare se stesso” (De Jos., 22), cioè di giudizio autonomo sui propri valori, “non faceva udire la sua voce eppure parlava la sua innocenza” (De Jos., 26). “Giuseppe – dice Ambrogio – avrebbe potuto donare tutte le ricchezze dell’Egitto e distribuire i tesori del re. Eppure non volle apparire prodigo dell’altrui ma preferì vendere il grano agli affamati piuttosto che donarlo, perché, se l’avesse donato a pochi, sarebbe mancato ai più. Preferì quella liberalità per averne con tutti. Spalancò i granai perché tutti acquistassero una razione di frumento per evitare che, ricevendolo gratuitamente, abbandonassero la coltivazione dei campi. Infatti chi approfitta dell’altrui, trascura il proprio… Stabilì una tassa da versare allo stato perché tutti potessero avere con maggior sicurezza quello che a loro serviva… Fu un uomo grande davvero, perché non cercò la gloria mondana di una generosità superflua, ma procurò un duraturo vantaggio con la sua previdenza. Fece in modo che i popoli traessero giovamento dalle tasse che pagavano e nel tempo della necessità non avessero bisogno degli aiuti esterni” (De off., II, 79-81). È un quadro politico ed economico di grande interesse. (Carlo Maria Martini, Il seme, il lievito e il piccolo gregge).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 31 Agosto 2017ultima modifica: 2017-08-31T22:34:22+02:00da fraternidade
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