Giorno per giorno – 16 Febbraio 2017

Carissimi,
“Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: La gente, chi dice che io sia? Ed essi gli risposero: Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti. Ed egli domandava loro: Ma voi, chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (Mc 8, 27-30). Ma tu, chi dici che io sia? La domanda è rivolta a ciascuno di noi. Ora, noi che siamo ancora mezzo sordi e mezzo ciechi, dato che si è letto il Vangelo, qua e là, o studiato magari il catechismo, una risposta gliela azzardiamo anche. Ma, rischia di essere una mezza risposta. Come lo è probabilmente per la maggior parte di quanti si dicono cristiani. Una risposta che tace ciò che, dopo la sua professione di fede, anche Pietro pensò di censurare: la croce. Attirandosi l’ira di Gesù: “Cammina dietro di me, Satana (detto a lui, Pietro!): non hai capito proprio niente di Dio, ragioni ancora troppo come gli uomini che pensano solo al potere”. Senza la croce e ciò che essa significa – il dono di sé fino alla morte, come espressione di un amore che si destina a tutti, compresi i propri crocifissori -, il cristianesimo non si differenzierebbe da una qualsiasi altra religione, senza che per questo le religioni siano disprezzabili, dato che sono pur sempre tentativi, sollecitati dallo Spirito, di incontrare un senso al vivere umano. Si toglierebbe, infatti, al messaggio cristiano la sua specificità, che è quello di un amore che supera ogni barriera, da cui ci si sente raggiunti e che chiede di essere testimoniato, al seguito di Gesù, come proposta di un’umanità nuova, non più schiava dei suoi istinti egoisti e della sua volontà di potere. A partire da dentro casa, e poi negli spazi in cui si svolge la nostra vita, nel suo concreto darsi e con le scelte che esige da noi. Noi, a dire il vero, come individui e come chiese, cerchiamo ogni volta di convincere Gesù del fatto che, la croce, nel nostro servizio alla verità, non ci fa proprio una bella figura. Ma vedi tu se lo si riesce a convincere!

Oggi è memoria di Janani Jakaliya Luwum, pastore e martire in Uganda, e dello starec Isidoro, asceta ed eremita.

Janani Jakaliya Luwum era nato nel 1922 a Mucwini, in Uganda. Da ragazzo era stato pastore del gregge di suo padre, un contadino di recente convertito al cristianesimo. Solo all’età di dieci anni aveva potuto cominciare a frequentare la scuola e lo fece con impegno e profitto, fino a conseguire il diploma di insegnante. Il 6 gennaio 1948, Janani ricevette il battesimo. L’esigenza che sentiva sempre più pressante di evangelizzare, lo portò, dapprima, ad essere catechista e, poi, a decidere di mettersi a tempo pieno al servizio della Chiesa. Ordinato sacerdote nel 1956, alternò soggiorni di studio in Inghilterra al lavoro pastorale e all’insegnamento nell’ Istituto teologico di Bulawasi, finché il 25 gennaio 1956 fu consacrato vescovo dell’Uganda settentrionale. Alla cerimonia erano presenti il presidente della repubblica, Milton Obote, e l’allora Capo di stato maggiore dell’esercito, Idi Amin. Nel 1974, Janani Luwum fu eletto Arcivescovo di Uganda, Rwanda, Burundi and Boga-Zaire. Nel frattempo, nel 1971 il Colonnello Idi Amin aveva rovesciato con un cruento colpo di stato il governo in carica e aveva instaurato una crudele dittatura militare. Migliaia di persone erano state arrestate, imprigionate senza alcun processo e giustiziate. L’arcivescovo Luwum non se ne stette zitto, né allora, né negli anni successivi. L’8 febbraio 1977, lui e quasi tutti i vescovi ugandesi si riunirono e stilarono una dura nota di protesta, in cui si denunciavano gli atti di violenza compiuti dai servizi di sicurezza del regime e si chiedeva un incontro urgente con il dittatore. Il 16 febbraio, gli ecclesiastici furono convocati nella capitale Kampala. Dopo un confronto farsa, che si risolse in una sorta di processo per tradimento ai vescovi presenti, ad uno ad uno, fu ordinato loro di andarsente. Fu trattenuto solo Luwum, che volgendosi al vescovo Festo Kivengere, disse: “Mi uccideranno, ma non ho paura”. Il giorno dopo fu diffusa la notizia che l’arcivescovo con due ministri del governo, cristiani impegnati, erano morti in un incidente d’auto. In seguito si seppe che lo stesso Amin, infuriato per il rifiuto di Luwum a sottoscrivere una confessione, gli aveva sparato a bruciapelo in volto. Era il 16 febbraio 1977.

Ioann (tale il nome alla nascita) era nato, nel 1824 (o, secondo un’altra versione, nel 1833), nel villaggio di Lyskovo, nel distretto di Makar’evo, nel governatorato di Nižegorod (Russia), nella famiglia di Andrey e Paraskeva Kozin, servi della gleba addetti ai servizi domestici alle dipendenze dei principi Gruzinskij. Quando era incinta di lui, la madre si era recata a Sarov, dallo starec Serafim e il santo l’aveva chiamata a sé e le si era prostrato davanti, predicendole che sarebbe nato da lei un grande asceta. Poco o nulla si sa degli anni giovanili di Ioann, salvo il fatto che, assieme ai divertimenti propri dell’età, egli dava spazio a momenti di preghiera e di meditazione. Nel 1852, avendo ormai chiara dentro di sé la vocazione allo stato monastico, chiese e ottenne di entrare nell’eremo del Getsemani, eretto dal metropolita di Mosca, Filarete. Nel 1860 Ioann fu ordinato monaco e prese il nome di Isidoro. Si trasferì allora nell’eremo del Paraclito, destinato agli amanti della solitudine più austera, dove ricevette l’ordinazione a ieromonaco. Lì restò cinque anni, fino a quando, cioè, gli si offrì la possibilità di recarsi nella repubblica monastica del Monte Athos, dove però potè trattenersi solo un anno. Tornato in patria, dopo un breve periodo al Paraclito, fece ritorno all’antico eremiterio, dove visse senza interruzioni, fino alla morte avvenuta alle undici di sera del 16 febbraio (3 febbraio per il calendario giuliano) del 1908. Pavel Florenskij, che fu suo figlio spirituale, nella biografia che gli dedicò, scrisse di lui: “Povertà, salute precaria, sprezzante trascuratezza, ingiurie, persecuzioni: ecco di quali spine si era ricoperto il sentiero della vita dello starec. E tuttavia, pur tra queste spine, egli era riuscito a serbare una tale serenità, una tale gioia, una tale pienezza di vita, quale noi non abbiamo né siamo in grado di conseguire nemmeno nelle condizioni in assoluto più favorevoli”.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.9, 1-13; Salmo 33; Vangelo di Marco, cap.8, 27-33.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Oggi, Dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito (ma profeta tuttora attivo, pur in compagnia di quello che chiama suo “fratello Parkinson”) della nostra diocesi-sorella di Sâo Felix do Araguaia, compie 89 anni, essendo nato il 16 febbraio 1928, a Balsareny, provincia di Barcellona. Lo ricordiamo, come sempre, nella preghiera e, qui, con questa sua poesia “A paz inquieta”, che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dacci, Signore, quella pace inquieta / che denuncia la pace dei cimiteri / e la pace degli enormi profitti. // Dacci la pace che lotta per la pace! / La pace che ci scuote / Con l’urgenza del Regno. / La pace che ci invade, / Con il vento dello Spirito, / La routine e la paura, / la tranquillità delle spiagge / E la preghiera come rifugio. / La pace delle armi spezzate / nella sconfitta delle armi. / La pace del pane della fame di giustizia, / La pace della libertà conquistata, / La pace che diventa “nostra” / Senza steccati o confini, / Che è sia “Shalom” che “Salam”, / Perdono, ritorno, abbraccio… / Dacci la tua Pace, / Questa pace periferica che comincia a sillabare a Betlemme / E agonizza sulla Croce / E trionfa a Pasqua. // Dacci, Signore, quella pace inquieta, / Che non ci lascia in pace. (Pedro Casaldáliga, A paz inquieta)

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Febbraio 2017ultima modifica: 2017-02-16T22:35:00+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo