Giorno per giorno – 15 Febbraio 2017

Carissimi,
“Gesù prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: Vedi qualcosa? Quello, alzando gli occhi, diceva: Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa” (Mc 8, 23-25). Quel cieco, siamo anche noi, ci dicevamo stasera. È bene almeno averne coscienza e non essere, così, convinti di vederci. Lui, pazientemente, se lo lasceremo agire, ci prenderà da parte, e con il dono del suo Spirito (simboleggiato dalla saliva), comincerà ad aprirci gli occhi alla verità. Di Dio, nostra e dei fratelli. Che noi si sia ancora nel processo di cura, è confermato dal fatto che, sempre che si scorga già qualcosa, vediamo gli altri semplicemente come “alberi che camminano”, come cose, spesso inutili, povere e disprezzabili, niente di più. La conversione allo sguardo del Padre universale, amoroso con tutti, non è ancora giunta al fine e Gesù deve insistere, e molto, perché noi si arrivi a distinguere nel volto di ogni altra persona, diversa e lontana da noi, per nazione, ceto, cultura, religione, fosse anche nostra nemica, i tratti dell’unico figlio di Dio. Si assiste a così tante manifestazioni di odio nel mondo, e proprio là dove si parla di paesi di cultura e tradizione cristiana, che a volte viene da dubitare che il messaggio di Cristo, la Buona Notizia che è il Cristo, sia davvero scesa, allora e una volta per tutte, a incarnarsi nella nostra storia, proiettando una luce nuova sul corso delle cose, smascherando l’ordine dell’ingiustizia, con cui il sistema del dominio pretende di imporsi su tutto e tutti. Ma poi, si vedono i segni di una realtà nuova, quella testimoniata dagli ex-ciechi, che, rimandati a casa, obbediscono al comando di Gesù, di “non entrare nel villaggio”, per non cadere nuovamente sotto la logica del principe di questo mondo, che seminando odio e divisione, li ridurrebbe ad una cecità peggiore della prima.

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di Benjamin J. Salmon, profeta di pace e di nonviolenza negli Stati Uniti; di Camilo Torres, martire nella lotta per la giustizia, in Colombia; Maria Elena Moyano, martire per la giustizia, la pace e la fraternità in Perù, di P. Juan Alonso Fernández, martire in Guatemala.

Ben Salmon era nato nel 1889, a Denver, nel Colorado (Usa), da una modesta famiglia cattolica di lavoratori. Impegnato nel sociale fin da giovane, fu subito attratto dal messaggio evangelico della nonviolenza che, all’epoca, lungi dall’essere patrimonio comune, era anzi avversato e guardato con sospetto persino da parte delle chiese. Cattolico praticante, nel 1917 si sposò, proprio nei giorni in cui gli fu notificata la chiamata alla leva. Coerente con i suoi ideali, Ben si dichiarò obiettore di coscienza, scontrandosi in questo, oltre che con il potere civile, con la dottrina e la gerarchia della sua stessa chiesa, che da secoli aveva inventato la teoria della “guerra giusta”. Arrestato nel 1918, processato e condannato a morte, Salmon si vide commutata la pena a venticinue anni di prigione. Dopo due anni trascorsi in carcere duro, in regime di isolamento e in condizioni abominevoli, torturato e irriso, intraprese uno sciopero della fame ad oltranza. Giudicato malato di mente, a causa della sua profezia e testimonianza, fu ricoverato nel manicomio di S. Elisabetta a Washington, da cui tuttavia fu dimesso poco dopo. Dopo la sua liberazione condusse una tranquilla vita in seno alla sua famiglia, continuando nella sua pratica di vita cattolica nonostante l’incomprensione della sua Chiesa. Benché i suoi studi non fossero andati oltre l’ottavo grado, redasse allora un manoscritto di duecento pagine, criticando la dottrina della guerra giusta. Il trattamento riservatogli negli anni di prigione aveva però minato in maniera irreparabile la sua salute. Fu così che Ben Salmon morì a soli quarantatre anni, il 15 febbraio 1932. Dei suoi figli, uno divenne prete e un’altra suora nella Congregazione di Maryknoll.

Jorge Camilo Torres Restrepo era nato il 3 febbraio 1929 a Bogotà, in Colombia, in una famiglia della ricca borghesia liberale. Dopo gli studi secondari, decise, all’inizio del 1948, di entrare in seminario, dove rimase sette anni, fino all’ordinazione sacerdotale, nel 1954. Subito dopo fu inviato in Belgio per studiare sociologia all’Università di Lovanio, dove si laureò. Tornato a Bogotà, fu nominato cappellano dell’Università Nazionale. Lí, con altri professori, fondò la Facoltà di Sociologia, che doveva essere nelle intenzioni una fucina di idee per la soluzione dei gravissimi problemi sociali che il Paese affrontava, Visto di malocchio dal card. Cordoba, a causa delle sue idee, fu rimosso dall’incarico nell’ambiente universitario e destinato a una parrocchia della periferia di Bogotà, senza che, per questo, Camilo rinunciasse al suo impegno sociale. Nel 1965 l’alta gerarchia fece insistentemente pressioni su di lui perché lasciare il ministero sacerdotale. Il 27 luglio 1965 celebrò la sua ultima messa. In un “Messaggio ai cristiani”, scritto poco più tardi quando già era entrato nelle file dell’ “Esercito di Liberazione Nazionale”, dichiarò: “Ho lasciato i privilegi e i doveri del clero, però non ho smesso d’essere sacerdote. Credo di essermi dato alla Rivoluzione per amore del prossimo. Ho smesso di dire messa per realizzare quest’amore del prossimo, sul piano temporale, economico e sociale. Quando il mio prossimo non avrà più nulla contro di me, a rivoluzione realizzata, tornerò ad offrire messa se Dio me lo permetterà. Credo che in questo modo seguo il comandamento di Cristo: “Se porti la tua offerta all’altare e lì ti accorgi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e vai, riconciliati prima col tuo fratello, e dopo vieni e presenta la tua offerta (Mt 5, 23-24). Morì nella sua prima esperienza in combattimento, il 15 febbraio 1966, a Patio Cemento, in un’imboscata tesa ad una pattuglia militare colombiana dall’ELN. In occasione del cinquantenario della morte il Presidente della Conferenza Episcopale, Mons. Castro, si è detto disposto ad avviare un processo che preveda la riabilitazione di Camilo Torres, con la restituzione dello status presbiterale.

Maria Elena Moyano era nata il 29 novembre 1958, nel distretto di Barranco a Lima, in una famiglia di sette figli. La sua storia s’intrecciò ben presto con la nascita e la crescita di Villa El Salvador, uno dei municipi più recenti dell’area metropolitana della capitale peruviana, sorto, in pieno deserto, il 1° maggio del 1971 da un’invasione di terreni demaniali. Lì, Maria Elena, fu animatrice instancabile di tutte le iniziative che potessero rendere la vita più umana e dignitosa: strade, scuole, acqua, luce, posti di lavoro, cibo. Fondò, per la prima volta in Perù, la Federazione delle Donne, impegnandosi a organizzare i Club delle Madri, i Comitati per il Bicchiere di Latte, le Mense Popolari, i Centri di Raccolta, organizzando marce e mobilitazioni. Sempre all’ insegna del dialogo, della chiarezza e della non-violenza. Il 15 febbraio 1992, mentre assisteva a un’iniziativa di un Comitato del Bicchiere di Latte a Villa El Salvador, in compagnia dei suoi figli, Gustavo e David Pineki, Maria Elena fu fatta saltare con la dinamite da elementi dell’organizzazione terroristica Sendero Luminoso. Il suo funerale vide la presenza di oltre trecentomila persone e rappresentò una delle più imponenti manifestazioni che il Perù ricordi. Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione, pregando alle sue esequie, disse: “Ti rendiamo grazie, o Padre, per la vita che hai donato a Maria Elena. Grazie, Padre, per averci insegnato, attraverso lei, qual è il cammino per vincere la fame che uccide e le pallottole assassine, per averci insegnato la solidarietà, la speranza, l’allegria, l’offerta spontanea di se stessi. […] Coloro i quali l’hanno fatta saltare in aria, pensando di farla così scomparire, altro non hanno fatto se non spargere i semi di questa amica nei nostri cuori, semi di vita”.

Di P. Juan Alonso Fernández sappiamo solo che era missionario della Congregazione del Sacro Cuore, e che, nel periodo più critico della violenta repressione governativa in atto nel Quiché (Guatemala), scelse con altri tre sacerdoti di farvi ritorno, dopo che tutti i preti, in seguito all’assassinio di due missionari, P. José María Gran Cirera e P. Faustino Villanueva, tra giugno e luglio 1980, avevano deciso di lasciare la regione per richiamare l’attenzione del mondo su ciò che stava accadendo. Tornati dunque nel Quiché, P. Juan assunse la cura pastorale della Zona Nord, dove maggiore era il pericolo che correvano catechisti e sacerdoti. Il 28 gennaio 1981, scriveva a suo fratello: “Non desidero certo che mi ammazzino, ma, meno ancora, sono disposto, per paura, ad allontanarmi da questa gente. Una volta di più mi viene da pensare: Chi ci potrà separare dall’amore di Cristo?”. Nella Zona Nord, seguiva le parrocchie di Nebaj, Cotzal, Chajul, Cunen, Uspantán, Chicamán y Lancetillo. Ed era un compito immane; solo chi conosca le distanze e la difficoltà delle comunicazioni, oltre al fatto del suo trovarsi da solo in tale ministero, può arrivare a capire la radicalità della sua decisione. Il 13 febbraio 1981, era appena arrivato nella parrocchia di San Miguel Uspantán, che fu chiamato e interrogato dai militari distaccati sul posto. Proferirono insulti e accuse, ma, a notte, lo rilasciarono. La mattina del giorno seguente, sabato, 14 febbraio, si recò nel villaggio di Chicamán, per celebrarvi l’Eucaristia. Lì lo consigliarono: “Padre, la cercano, è meglio che se ne vada, se no possono ammazzarlo”. E lui prendendo in mano il crocifisso che portava sotto la giacca esclamò: “Per Lui sono diventato prete, e se devo morire per Lui, sono qui”. Nel pomeriggio si spostò a Uspantán, dove la mattina di domenica 15, celebrò ugualmente l’Eucaristia. Il pomeriggio, prese la moto per recarsi a Cunén. Alle tre, lungo la strada, fu fermato da una pattuglia di soldati, che lo torturarono e poi lo finirono con tre proiettili sparatigli in testa. I funerali si svolsero il 17 febbraio nella chiesa di Chichicastenango.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.8, 6-13. 20-22; Salmo 116; Vangelo di Marco, cap.8, 22-26.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

Oggi compirebbe novantanni, uno dei profeti del nostro tempo, Carlo Maria Martini, nato a Torino il 15 febbraio 1927. Noi scegliamo di ricordarlo, offrendovi in lettura un suo brano, tratto dal libro di “Guidami sulla retta via” (Edizioni Elle Di Ci). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Qualcuno potrebbe chiedersi se è davvero importante conoscere il modo in cui Gesù ci conosce. È una cosa che aiuta nella vita, che serve? Vorrei rispondere a questa possibile domanda con le parole che Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, rivolge alla samaritana: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva!” (Gv 4, 10). Se noi conoscessimo il dono di Dio e chi è Gesù che ci parla, la nostra vita sarebbe completamente diversa. Senza questa conoscenza di Gesù la nostra vita è fiacca, si trascina. Quando, ad esempio, ci sentiamo privi di volontà, di entusiasmo, oppure andiamo avanti per alti e bassi, significa che non abbiamo la conoscenza di Gesù o che si è sfocata. Quando in una parrocchia c’è grigiore, stanchezza, mancanza di gioia, i giovani si lamentano e sono scontenti, la gente frequenta poco la chiesa, possiamo dire: “Qui non c’è conoscenza di Gesù”. Se poi il grigiore e la fiacchezza dominassero una classe, un seminario, rivelando una poca conoscenza di Gesù, la vita diventerebbe pesante, per non dire impossibile. Per quanto riguarda voi, credo che ciascuno, se non avesse questa conoscenza di Gesù, potrebbe dire: “Il mio futuro è incerto e buio, vorrei sapere ma non so se Gesù mi chiama davvero, non so come fare a capire se sono chiamato”. Se non ho la conoscenza di Gesù, le domande che mi pongo restano confuse e senza risposta. Già san Paolo diceva che la conoscenza di Gesù è così importante da far dimenticare tutto il resto: “Quello che poteva essere per me un guadagno, tutto ciò che mi dava successo, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8). Sono parole fortissime, con le quali l’Apostolo dice: “Se ho la conoscenza di Gesù non mi importa più niente del resto, mi sento pieno dentro di me”. È quindi fondamentale per la nostra vita la conoscenza di Gesù e dobbiamo insistere nella preghiera: “O Gesù, fa’ che io ti conosca, fa’ che ti conosca come mi conosci tu, fa’ che io conosca come tu mi conosci!”. (Carlo Maria Martini, Guidami sulla retta via).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Febbraio 2017ultima modifica: 2017-02-15T22:32:27+01:00da fraternidade
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